sabato 30 luglio 2011

Goldman Sachs? Ha più soldi della Casa Bianca.

Probabilmente per noi "comuni mortali" è difficile avere un'esatta percezione della ricchezza e del potere economico: che cosa siano veramente e dove siano veramente.
Notizie come questa aiutano a chiarirsi un po' le idee. 

Da archiviostorico.corriere.it:

Il «salvato» ha superato il «salvatore». Goldman Sachs, che ai picchi della crisi internazionale era stata aiutata dal governo Usa - poi rimborsato - oggi ha in cassa più liquidità della stessa Casa Bianca. Secondo uno studio del sito Zero Hedge, basato su rilevamenti di Capital IQ, lo scorso 13 luglio erano addirittura 29, tra cui Goldman, le grandi quotate con una liquidità maggiore del governo americano. Nella prima metà di luglio le disponibilità di moneta del Tesoro sono scese da 130 miliardi di dollari a 39 miliardi, vale a dire meno di colossi di Wall Street come Bank of America (nonostante abbia chiuso il secondo trimestre con un rosso di 8,8 miliardi di dollari, -1,5% ieri in Borsa), JPMorgan, Morgan Stanley e, appunto, Goldman Sachs.
Stringa Giovanni

Il pericolo giallo.

Mentre noi ci accapigliamo se sia giusto o no fare sposare i sodomiti, oppure se sia vero o no che Tremonti non paga l'affitto, nel resto del pianeta stanno capitando - ovviamente a nostra totale insaputa e nel più rigoroso silenzio dei nostri media - alcune cosette...

Dal sito eurasia-rivista.org:

La contesa geopolitica sino – statunitense

di Giacomo Gabellini
Che la prorompente ascesa di svariati paesi abbia assestato un duro colpo all’assetto mondiale incardinato sull’unipolarismo statunitense è un fatto che pochi oseranno contestare.
La resurrezione della Russia sotto l’autoritaria egida di Putin affiancata all’affermazione della Cina al rango di grande potenza costituiscono i due principali fattori destabilizzanti in grado di ridisegnare i rapporti di forza a livello internazionale.
Se la Russia, tuttavia, ha potuto contare sulla monumentale eredità sovietica, la Cina ha fatto registrare un progresso politico ed economico assolutamente straordinario.
Il lungimirante progetto di ristrutturazione messo a punto in passato da Deng Xiao Ping ha inoppugnabilmente svolto un ruolo cruciale nell’odierno riscatto cinese e tracciato un solco profondo entro il quale sono andati a collocarsi tutti i suoi successori, da Jang Zemin a Hu Jintao, passando per Jang Shangkun.
Come tutti i paesi soggetti a forte sviluppo economico, la Cina si trova a dover soddisfare una crescente seppur già esorbitante domanda di idrocarburi.
Per farlo, è costretta ad estendere la propria capacità di influenza ai paesi produttori Medio Oriente e a quelli dell’Africa orientale attraverso i territori dell’Asia centrale e le vie marittime che collegano il Golfo Persico al Mar Cinese Meridionale.
In vista di tale scopo, la diplomazia cinese ha escogitato una efficace strategia diplomatica imperniata sul principio della sussidiarietà internazionale e profuso enormi sforzi per dotarsi di un esercito capace di sostenere gli ambiziosi progetti egemonici ideati dal governo di Pechino.
L’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai – che raggruppa Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan, e Uzbekistan e che annovera Iran, Pakistan, India e Mongolia in qualità di osservatori – patrocinata dalla Cina ha promosso una partnership strategica tra i paesi aderenti ad essa atta a favorire un’integrazione continentale in grado di far ricadere cospicui vantaggi su tutto l’insieme.
In aggiunta, va sottolineato il fatto che è in fase di consolidamento l’asse Mosca – Pechino nello scambio tra armamenti e petrolio.
La Cina acquista gran parte delle proprie forze militari dalla Russia dietro congrui conguagli e costituisce il primo cliente per il mercato bellico russo.
Caldeggia la realizzazione di una pipeline che attinga dai giacimenti russi e faccia approdare petrolio ai terminali cinesi, trovando però l’opposizione della Russia, incapace di far fronte tanto alla domanda cinese quanto a quella europea.
In compenso, Mosca sostiene la realizzazione del cosiddetto “gasdotto della pace”, un corridoio energetico finalizzato a far affluire il gas iraniano in territorio cinese attraverso Pakistan ed India, in grado di orientare gli idrocarburi iraniani verso est e consentendo in tal modo alla Russia di assestarsi su una posizione assolutamente dominante ed incontrastata sul solo mercato europeo.
Ruggini vecchie e nuove hanno impedito la rapida realizzazione dei progetti in questione portando il governo di Pechino ad individuare soluzioni alternative.
Non a caso, uno dei grandi scenari in cui si gioca attualmente la partita tra gli Stati Uniti in declino ma decisi a vender cara la pelle e la rampante Cina in piena ascesa economica è l’Africa, che grazie alle sue immense risorse di idrocarburi (e materie prime) costituisce l’oggetto del desiderio tanto dell’una quanto dell’altra potenza.
La Storia insegna sia che la scoperta di giacimenti di idrocarburi nelle regioni povere costituisce il reale movente dei conflitti che vedono regolarmente fazioni opposte combattere aspramente, quasi sempre a danno della popolazione, per garantirsene il controllo sia che dietro di esse si celano direttamente o indirettamente quelle grandi potenze interessate ad estendere la propria egemonia geopolitica.
Sudan, Nigeria, Congo, Angola, Yemen, Myanmar (l’elenco è sterminato).
La penetrazione di Pechino in Africa è proceduta gradualmente, ma il consolidamento di essa è stato reso possibile solo grazie ai passi da gigante fatti registrare dalla marina cinese.
Dietro suggerimento dell’influente ammiraglio Liu Huaqing, il governo di Pechino aveva infatti sostenuto il progetto riguardante l’adozione di sottomarini classe Kilo e di incrociatori classe Sovremenniy, oltre al potenziamento dei sistemi di intelligence e delle tecnologie militari necessarie a supportare una flotta efficiente ed attrezzata di tutto punto per fronteggiare qualsiasi tipo di minaccia.
Il Primo Ministro Hu Jintao e suoi assistenti di governo hanno inoltre potuto approfittare della risoluzione ONU di fine 2008 finalizzata alla repressione della pirateria del Corno d’Africa per insinuare la propria flotta fino al Golfo Persico e al largo del litorale di Aden, don licenza di sconfinare in aperto Mediterraneo attraverso il Canale di Suez.
La pirateria, ben supportata dal caos politico che governa la Somalia, in questi ultimi anni ha esteso consistentemente il proprio raggio d’azione arrivando a lambire le coste dell’Indonesia e di Taiwan ad est e del Madagascar a sud.
Ciò ha effettivamente sortito forti ripercussioni sui traffici marittimi internazionali, portando circa un terzo delle cinquemila imbarcazioni commerciali che transitavano annualmente per quella via a propendere per il doppiaggio del Capo di Buona Speranza pur di evitare di imboccare il Canale di Suez.
Ciò ha comportato un dispendio maggiore di denaro dovuto alla dilatazione dei tempi di trasporto e rafforzato le ragioni della permanenza della flotta cinese lungo le rotte fondamentali.
Tuttavia l’opera di contrasto alla pirateria – sui cui manovratori e membri effettivi ben poca luce è stata fatta – si colloca in un piano del tutto secondario nell’agenda cinese, interessata prioritariamente ad assumere il controllo delle rotte marittime fondamentali e dei paesi che si su di esse si affacciano.
Di fondamentale importanza a tale riguardo risultano gli stretti di Malacca e Singapore, specialmente in forza della quantità di petrolio che vi transita, ben tre volte superiore a quella che transita attraverso il Canale di Suez.
Circa quattro quinti dei cargo petroliferi provenienti dal Golfo Persico destinati alla Cina passa per lo Stretto di Malacca, mentre gran parte di quelli diretti al Giappone passano per quello di Singapore.
E’ interessante notare come, di converso, gli Stati Uniti e i loro alleati abbiano agito pesantemente per destabilizzare i paesi che costituiscono l’asse portante della strategia cinese.
La secessione del Sudan del Sud dal governo centrale di Khartoum ha minato l’integrità della Repubblica del Sudan privandola dell’area ricca di petrolio e compromettendone gran parte degli introiti legati alle esportazioni.
Nel fomentamento dei dissidi si è intravista la mano pesante di Israele, che per ammissione dello stesso ex direttore dello Shin Bet Avi Dichter aveva sostenuto attivamente le forze indipendentiste del sud.
Un’operazione atta a privilegiare le etnie e le tribù meridionali invise alla preponderanza araba del resto del paese, che segna una logica soluzione di continuità rispetto alla classica strategia antiaraba propugnata da Tel Aviv, interessata costantemente a stringere legami con i paesi regionali non arabi.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, avevano rifornito di aiuti i paesi limitrofi al Sudan affinché sovesciassero il governo centrale di Khartoum fin dall’era Clinton, mentre attualmente si sono “limitati” a stanziare corpose iniezioni di denaro a contractors privati incaricati di addestrare le frange secessioniste.
La Cina era il principale sponsor del presidente sudanese Omar Hassan El Bashir, con il quale erano stati regolarmente barattati tecnologie, armamenti e infrastrutture in cambio di petrolio.
Un altro paese fortemente destabilizzato in relazione alla sua posizione strategicamente cruciale è lo Yemen, cui gli Stati Uniti hanno richiesto con insistenza la concessione dell’isola di Socotra per installarvi una base militare che, se unita alla Quinta Flotta stanziata nel vicino Bahrein, formerebbe la principale forza militare dell’intero Golfo Persico.
L’isola si situa a metà strada tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano ed occupa una posizione che coincide con il crocevia delle rotte commerciali che collegano il Mediterraneo, mediante il Canale di Suez, al Golfo di Aden e al Mar Cinese Meridionale.
Myanmar è stato invece oggetto di una vera e propria rivoluzione colorata, quella “color zafferano” che deve il suo nome al colore delle vesti indossate dai monaci buddhisti protagonisti delle rivolte antigovernative.
Non è un segreto che la giunta militare guidata dall’enigmatico generale Than Shwe si sia resa responsabile di efferatezze che la rendono difficilmente difendibile, ma siccome gli stati non hanno mai conformato il proprio operato alle tavole della legge morale non stupisce che il sostegno statunitense accordato alle frange rivoltose non abbia nulla a che vedere con la tutela dei diritti umani, ma risponda a ben precisi obiettivi geopolitici.
Il dominio degli stretti di Malacca e Singapore consente infatti di esercitare un controllo diretto sugli approvvigionamenti energetici destinati alla Cina.
La Cina ha però effettuato le proprie contromosse, fornendo il proprio appoggio politico all’isolato governo di Rangoon e raggiungendo con esso accordi commerciali e diplomatici di capitale importanza strategica.
Pechino ha rifornito la giunta militare al potere di armamenti e tecnologie militari, ha stanziato fondi sostanziosi per la costruzione di numerose infrastrutture come strade, ferrovie e ponti.
In cambio, ha ottenuto il diritto di sfruttare i ricchi giacimenti gasiferi presenti sui fondali delle acque territoriali ex birmane oltre a quello di dislocare le proprie truppe e di installare basi militari nel territorio del Myanmar.
Alla luce dei fatti, risulta che il Myanmar corrisponda a un segmento fondamentale del “filo di perle” concepito da Pechino, l’obiettivo strategico che prevede l’installazione di basi militari in tutti i paesi del sud – est asiatico che si affacciano sull’oceano indiano.
Tale obiettivo è oggettivamente favorito dall’evoluzione dei rapporti tra Pakistan e Stati Uniti, in evidente rotta di collisione.
Islamabad ha mal digerito tanto le accuse di connivenza con il terrorismo rivolte ai propri servizi segreti (ISI) quanto le sortite unilaterali compiute dai droni statunitensi in territorio pakistano e ha giocato sulla centralità mediatica di cui è stato oggetto il poco credibile blitz che avrebbe portato all’uccisione di Osama Bin Laden per esternare pubblicamente la propria ferma protesta nei confronti dell’atteggiamento di Washington, che ha a sua volta replicato aspramente per bocca del Segretario alla Difesa Robert Gates e poi  per il suo successore Leon Panetta.
Ciò ha spinto Pechino a scendere in campo al fianco del Pakistan, suscitando il plauso del Presidente Ali Zardari.
Tuttavia le relazioni tra Cina e Pakistan erano in fase di consolidamento da svariati mesi e hanno prodotto risultati letteralmente allettanti.
La realizzazione del porto sia civile che militare di Gwadar, dal quale è possibile dominare l’accesso al Golfo Persico,  è indubbiamente il più importante di essi.
Il progetto in questione comprende inoltre la costruzione di una raffineria e di una via di trasporto in grado di collegare lo Xinjiang al territorio pakistano.
Un valore aggiunto al porto di Gwadar  è già stato inoltre conferito dall’intesa raggiunta con Islamabad e il governo di Teheran relativa alla realizzazione di un corridoio energetico destinato a far approdare il gas iraniano ai terminali cinesi.
In tal modo  lo sbocco portuale di Gwadar promette di divenire una dei principali snodi commerciali per l’energia iraniana, attirando Teheran verso l’orbita cinese e consentendo quindi al governo di Pechino di inanellare un’ulteriore gemma alla propria “collana di perle”.
La chiara vocazione eurasiatica del progetto cinese ha ovviamente suscitato forti preoccupazioni presso Washington, che non mancherà di lastricare di mine la nuova “via della seta” finalizzata a compattare il Vicino e Medio Oriente all’Asia orientale e suscettibile di sortire forti contraccolpi sulla politica energetica europea, destinata a legarsi indissolubilmente alla Russia.

La Francia fuori dalla NATO?

Si tratta di una notizia di aprile, ma, per motivi vari, ha avuto una certa eco solo in questi ultimi giorni. Merita conoscerla.

Dal sito "L'interprete internazionale":
Con una certa enfasi, l’agenzia russa Ria Novosti riferisce delle dichiarazioni della leader del Front National francese, Marine Le Pen, temutissima candidata alle presidenziali del 2012.
“Marine Le Pen promette l’uscita dalla Nato e un partenariato con la Russia”, titola l’agenzia. In un discorso tenuto ai corrispondenti esteri a Nanterre, la Le Pen avrebbe detto che, in caso di una sua vittoria alle presidenziali, la Francia farebbe della Russia un partner privilegiato e lascerebbe la Nato. “Penso che la Francia abbia tutto l’interesse a volgersi verso l’Europa, ma alla grande Europa. E in particolare a lavorare ad un partenariato con la Russia”, avrebbe detto, invocando “ragioni evidenti, di civiltà e geostrategiche”. E sull’Alleanza atlantica: “le scelte fatte dal presidente della Repubblica (ovvero Sarkozy, ndr), che appaiono come scelte di sistematico allineamento (sugli Usa, ndr), non mi paiono positive”.

sabato 23 luglio 2011

Volkstaat.org a "Ritorno a Camelot 2011".

Volkstaat.org, il movimento politico che promuove la causa dell'indipendentismo della nazione boera in Sud Africa, è stato invitato al 5° raduno "Ritorno a Camelot" organizzato dagli straordinari ragazzi del Veneto Fronte Skin.
Per chi può, un appuntamento da non perdere perchè conoscere meglio la realtà del popolo boero in Sud Africa, forse può significare conoscere meglio il futuro che attende i popoli europei...
Quello che segue è il comunicato di Volkstaat.org.

“Volkstaat.org” è stato invitato a tenere un piccolo spazio sulla nazione boera al 5° Ritorno a Camelot, storica iniziativa dell’associazione culturale Veneto Fronte Skinheads (VFS), rivolta a tutte le diverse realtà che si definiscono “nazionaliste”. L’appuntamento, che si ripete periodicamente dal 1991, è ormai un importante momento d’incontro, a livello italiano ed europeo.
L’invito del VFS è il primo (e per ora unico) ricevuto da “Volkstaat.org”. Oggigiorno, contrariamente da ciò che fu in passato, il nazionalismo boero,  differentemente da altri (come ad esempio il tibetano e l’irlandese), non gode di grande popolarità, probabilmente perché non conforme alla dottrina capitalista-comunista del “politicamente corretto”. Ma ogni nazione (vera) ha diritto all’indipendenza; anche quelle che hanno uno spirito e una cultura a noi incomprensibile.
Chi (di qualsiasi credo sia) vuole dare spazio alle ragioni dell’indipendentismo boero, non ha che da invitarci. Oggi, “Volkstaat.org” ringrazia il VFS, e conferma la propria presenza al 5° Ritorno a Camelot, al fine di promuovere la causa indipendentista boera.
La quinta edizione di “Ritorno a Camelot” si terrà il 2-3-4 settembre 2011.

martedì 19 luglio 2011

Ma c'è anche la guerra...

Proprio nel momento in cui l'emergenza economico-finanziaria catalizzata l'attenzione di tutti, è bene ricordare anche che siamo in guerra.
Lo facciamo con un articolo di Michele Mendolicchio pubblicato sul quotidiano Rinascita di ieri.

Libia, morte e distruzione questo l’orgoglio italiano.
Sulla revisione delle missioni c’è pure una interrogazione dei finiani al ministro La Russa per conoscere gli effettivi tagli operati dal governo. Come si sa circa 2 mila degli oltre 9 mila militari presenti sui vari fronti entro l’anno torneranno a casa. I costi di queste missioni di guerra mascherate da portatori di pace e di democrazia sono alti e comportano una spesa annuale di oltre un miliardo e mezzo di euro. Le spese poi di questa ultima missione in Libia sono talmente alte e ingiustificabili che anche la Lega ne ha preso atto. Certo gli aut aut di Bossi e compagni servono a poco visto che poi alla fine si rimane nel governo. Non basta denunciare l’assurda guerra, bisogna poi dare seguito alla propria coerenza. E questa finora non c’è stata. Se si è contro queste sporche guerre neocolonialiste non si può stare in una maggioranza guerrafondaia. Poi se guardiamo nella sponda opposta c’è da rabbrividire, con il Pd in pole position assieme all’amico Napolitano. Ma di quale credibilità parlano? Forse bombardare una parte tribale per favorire l’altra è un fatto di credibilità? Che il capo dello Stato si vergogni per certe prese di posizione che non stanno in piedi se non nel servilismo e nella sopraffazione di queste coalizioni di guerrafondai. Nell’interrogazione del finiano Patarino al ministro della guerra La Russa si chiede “maggiore rispetto per il lavoro di tutti i nostri uomini e donne in uniforme impegnati nella difesa della pace nel mondo, senza delegittimare il compito di parte di essi per convenienze politiche del momento” e se non intenda “ristabilire il giusto riconoscimento anche dal punto di vista economico”.    
Insomma si chiede all’ex colonnello di An di tornare sulle proprie decisioni, soprattutto in relazione alle spese relative alla missione libica tagliate di oltre il 50%. Nell’interrogazione dei finiani si fa riferimento anche al rientro della nave da guerra, Garibaldi. Vedremo cosa risponderà il ministro. Intanto La Russa ha pensato bene di festeggiare il suo compleanno a bordo della portaerei principe assieme ai marinai. In questa atmosfera di festa il ministro non poteva che lasciarsi andare in elogi eccessivi nei confronti della nostra Marina. E a proposito della Garibaldi ha detto: “il vostro lavoro, il vostro apporto alla missione è stato fondamentale in tutte le sue fasi: nella fase della no fly zone, in quella della flessibilità, che abbiamo autorizzato e che ha consentito raggiungere obiettivi che mettevano in pericolo le vite dei civili…”. E massacrare i militari lealisti al colonnello per favorire il golpe dei rivoltosi è forse un segnale di democrazia? Lasciamo perdere queste allucinazioni del ministro della guerra che oltretutto canta una fierezza di cui non ne avvertiamo il bisogno. Stiamo bombardando da oltre 4 mesi tutte le città tripolitane vicine a Gheddafi, senza riuscire a giustificare questa aggressione ad un Paese sovrano diviso in una guerra tribale. “E’ un motivo di orgoglio -ha concluso La Russa- che una   eccellenza italiana come la nostra Marina e come il Garibaldi abbia avuto da parte di tutti gli alleati della Nato il riconoscimento della  funzione assolutamente insostituibile che ha svolto per assicurare la possibilità di svolgere il ruolo che l’Onu ha assegnato alla Nato”. E qual è questo ruolo? Quello di portatori di morte e di sopraffazione non certo quello di pacificatori.

Politici e banchieri.

Lucidissimo contributo di Ida Magli alla comprensione delle vicende di questi giorni.

di Ida Magli
ItalianiLiberi | 14.07.2011
   Il sabato 9 luglio 2011 è una data che gli Italiani non debbono dimenticare. E’ il giorno, infatti, in cui il Ministro Tremonti, senza dare nessuna giustificazione del fatto che non paga l’affitto della casa dove abita, ha risposto ai giornalisti che gli domandavano se avesse intenzione di dimettersi, con una frase lapidaria: “Non mi dimetto perché sono io che garantisco l’Italia davanti all’Europa: se cado io, cade l’Italia e se cade l’Italia cade l’euro. E’ una catena.” In nessun periodo della storia d’Occidente un uomo politico, quale che fosse la sua importanza, ha mai potuto fare una simile affermazione. Né un conquistatore come Napoleone, né uno Zar come Pietro il Grande né un Re come Luigi XIV, né un Imperatore come Filippo di Spagna, perché essi rappresentavano l’immagine politica, non la dimensione concreta degli Stati, la forza dei popoli che vi vivono. Quelle di Tremonti, invece, per quanto terribili, non sono parole vane. La situazione è proprio quella che lui ha riassunto nell’affermazione: se cado io cade l’Italia e cade l’euro. In altri termini, l’Europa va in rovina perché il potere è nelle mani di una decina di banchieri, e sono essi a quantificarne la forza, giocandola in Borsa. Giocatori che soltanto la penna di Dostojewski sarebbe in grado di descrivere, questi banchieri hanno messo sul tavolo da gioco le Nazioni e non si alzeranno fino a quando non le avranno giocate tutte, essendo loro ad avere in mano il banco.
  Il dramma, dunque, è tutto qui. Firmando il trattato di Maastricht i politici hanno trasferito il proprio potere nelle mani dei banchieri. Oggi debbono riprenderselo, non possono fare altro che riprenderselo. Il che significa avere il coraggio di creare, senza indugio e senza discussioni, una nuova banca nazionale e stampare in proprio la moneta necessaria al bilancio dello Stato. I titoli dello Stato li compreranno esclusivamente i suoi cittadini (come avviene in Cina, in Russia e ovunque ci siano governi degni di questo nome) e non saranno collocati nella borsa mondiale alla mercé di chiunque voglia impadronirsene. Sono già pronti molti studi e molti progetti, elaborati da economisti italiani e stranieri di grande competenza, per la rinascita della moneta nazionale, e sono anche molti i politici, presenti in diversi Partiti, dal Pdl alla Lega, a Io amo l’Italia all’Italia dei Valori (con un’interpellanza parlamentare dell’on. Di Pietro sulla questione della sovranità monetaria) che sarebbero favorevoli a questa decisione e aspettano soltanto che qualcuno prenda la parola per primo. Si tratta di una decisione che comporterà moltissimi sacrifici, ma alla quale non c’è scelta perché uno Stato che intraprende la strada dei prestiti a interesse con la Banca centrale europea, non sarà mai in grado di restituirli e alla fine crollerà. Abbiamo la Grecia sotto gli occhi: dopo un orribile tira e molla, indegno di un qualsiasi concetto di civiltà, per concederle dei prestiti ad altissimo interesse, oggi la Bce dichiara che il fallimento della Grecia è inevitabile. Non è forse stato imposto pochi giorni fa all’Italia, di cui a sua volta si dice che stia per fallire, di contribuire per il 17% al totale dei miliardi prestati alla Grecia? Debitori sull’orlo della rovina costretti a prestare denaro a chi sta per fallire? C’è in Italia qualche politico che abbia conservato il minimo di buon senso necessario per rendersi conto della “follia” (se è follia e non rapina preordinata) di simili comportamenti?
  E’ indispensabile abbandonare ladri e folli al loro destino. Nessuno si illuda che esistano alternative alla decisione di produrre in proprio la moneta. Il meccanismo che sta portando alla rovina gli Stati europei non è dovuto a un qualche imprevedibile incidente ma è intrinseco alla creazione dell’euro, cosa che è stata detta e ripetuta innumerevoli volte da economisti e monetaristi di ogni tendenza politica. Non può sussistere una moneta che non fa capo a uno Stato e che non risponde alle necessità di questo Stato, in quanto la moneta di per sé è stata inventata proprio per essere uno “strumento” e non un “fine”. In Europa, invece, gli Stati sono stati costretti a mettersi al servizio dell’euro, piegandosi a poco a poco a costruire un mercato adatto all’euro, limitando le possibilità di scambio delle merci, coltivando carote su misura, uccidendo mucche, distruggendo arance… Per gli storici di domani l’Europa dell’Unione costituirà l’esempio più evidente di una società che delira. Siamo però ancora in tempo a cercare di non morirne.

sabato 16 luglio 2011

Attacchi speculativi e balle spaziali.

Le vicende finanziarie degli ultimi giorni hanno reso evidenti alcuni profili della nostra politica e della nostra economia, su cui torneremo. Di buono c'è che questa chiarificazione permette ad un numero sempre maggiore di persone di capire che, in ciò che raccontano i politici e gli economisti, non c'è nulla di vero. E di capire un po' meglio, finalmente, chi paga chi e per fare che cosa.
Significativo l'articolo che segue, tratto al sito www.blogsfere.it. L'autrice, Debora Belli, dice di non essere un'economista, però dimostra di avere capito alcune verità che mai un economista "istituzionale" ammetterebbe. Come lei, ne sono certo, anche tantissimi altri italiani.
Per analisi economiche più tecniche rinvio come sempre al sito ControInFormazione.
    
Attacchi speculativi ad hoc: i cani aspettavano l'osso.
Non sono qui l'esperta di finanza, essendo Pietro Cambi l'addetto a queste faccende. Ma da comune cittadina mi va di esprimere il mio pensiero, quello che dovrebbero fare tutti se non fossero affaccendati ad indignarsi per il biotestamento. Argomenti di etica che spuntano sempre al momento opportuno.
Come al momento opportuno è spuntato "l'attacco speculativo" all'Italia. Ovvero quando si è scoperto che la manovra finanziaria non prevedeva le regalìe che in genere ci si aspetta da un Paese nel mirino, da un PIG insomma. Ma come, siete nei guai, avete i debiti, rischiate il fallimento e non fate i saldi? Non ci date nessuna ghiotta opportunità d'acquisto? Nessun bene in vendita a prezzi stracciati?
Sarebbero quelle che si chiamano "azioni decisive per il deficit", e che Tremonti ha firmato di corsa ieri obtortissimo collo dichiarando poi di "aver dato un segnale ai mercati". Ovvero: per favore basta con gli attacchi, eccovi il pasto con cui saziarvi. Ha fatto resistenza finché ha potuto, poi ha dovuto gettare l'osso al cane. L'osso si chiama azioni dell'ENI, Enel e Finmeccanica, quel che rimane dell'industria nazionale produttiva. Insieme alle municipalizzate, in molti casi ben gestite e coi bilanci in attivo. Questo era ciò che i mercati aspettavano, che non era arrivato, e per cui abbiamo subìto la vendetta.
Come mai tutto ciò mi ricorda tanto ma tanto l'Argentina? Vendettero tutto, e non servì. La Grecia venderà persino le sue isole, ma non servirà. Lo sanno anche i sassi che svendere le nostre proprietà non serve a nulla, ma si fa lo stesso: per prolungare l'agonia fingendo di stare "mettendo a posto i conti", per non subìre ulteriori impoverimenti ad opera degli speculatori che stanno lì apposta, per non ricavarne un marchio di infamia politico che mette a rischio la carriera. Motivi in fondo sciocchi, di fronte alla rovina di un Paese, ma che lì per lì appaiono fondatissimi.
Assisteremo impotenti, e anche un po' inetti, alla spoliazione delle nostre ultime risorse. Non siamo i primi e non saremo gli ultimi, tante volte a qualcuno saltasse in testa "vado via che all'estero è meglio". Nessuno è al riparo. Shock economy in full gear. Se avessimo avuto un governo credibile, forse Tremonti avrebbe potuto continuare a tenere duro: ma con un premier ridicolo e senza alcun peso internazionale, l'Italia è come una vedova sola con dieci figli in mezzo ai banditi.
Questa la mia semplice opinone di cittadina. Magari sbaglio, magari ha ragione Enrico Letta.

Si privatizar es la cura...

Non ho mai inserito immagini nel blog. Ma questa merita un'eccezione.

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giovedì 14 luglio 2011

Libertà di parola sotto assedio.

Un articolo di Robert Skidelsky (membro della Camera dei Lord e professore emerito di Economia Politica presso l'Università di Warwick), che a tratti pare un po' ingenuo e superficiale nell'affrontare il tema delle leggi liberticide, ma che comunque è indicativo dell'allarme che da tempo tale legislazione sta creando tra l'opinione pubblica e tra gli intellettuali britannici. Accipicchia, mi tocca invidiare la perfida Albione...

LONDRA - Di recente, in un festival letterario in Gran Bretagna, mi sono trovato in un comitato di discussione sulla libertà di parola. Per i liberali, la libertà di parola è indice chiave della libertà. Le democrazie sono per la libertà di parola; le dittature per la repressione.
Quando noi occidentali buttiamo lo sguardo al di fuori dell’occidente, questo rimane il nostro punto di vista. Noi condanniamo i governi che zittiscono, imprigionano, e perfino uccidono scrittori e giornalisti. Reporters Sans Frontières tiene una lista: 24 giornalisti sono stati uccisi, e 148 imprigionati, proprio quest'anno. Parte della promessa che vediamo nella "primavera araba" è la liberazione dei media dalla stretta dei dittatori.
Eppure la libertà di parola in Occidente è sotto pressione. Tradizionalmente, la legge britannica ha imposto due principali limitazioni su “il diritto della libertà di parola”. Il primo ha vietato l'uso di parole o espressioni che potrebbero turbare l'ordine pubblico, la seconda è stata la legge contro la diffamazione. Ci sono buone ragioni per entrambe - per preservare la pace e per proteggere la reputazione degli individui dalla menzogna. La maggior parte delle società libere accettano tali limiti come ragionevoli.
Ma la legge è recentemente diventata più restrittiva. "L’incitamento all'odio religioso e razziale" e "l’incitamento all'odio sulla base dell'orientamento sessuale" ora sono illegali nella maggior parte dei paesi europei, indipendentemente da qualsiasi minaccia per l’ordine pubblico.
Un esempio lampante è la legge contro la negazione dell'Olocausto. Negare o minimizzare l'Olocausto è un reato in Israele e in 15 Paesi Europei. Si può sostenere che l'Olocausto è un crimine così particolarmente aberrante da qualificarsi come un caso speciale. Ma i casi particolari hanno l'abitudine di moltiplicarsi.
La Francia ha reso illegale negare qualsiasi "crimine contro l'umanità riconosciuto a livello internazionale”. Mentre nei paesi musulmani è illegale chiamare i massacri Armeni del 1915-1917 "genocidi", in alcuni paesi occidentali è illegale dire che non lo erano. Alcuni paesi dell'Europa orientale in particolare vietano la negazione dei “genocidi” comunisti.
La censura della memoria, che appassionatamente una volta immaginavamo essere segno della dittatura, è oggi un settore in crescita maggiore nel “libero” Occidente. Infatti, la censura ufficiale è solo la punta dell’iceberg di una censura culturale. Una persona pubblica deve stare costantemente in guardia contro i reati che causano offese, che siano intenzionali o meno.
Rompere il codice culturale danneggia la reputazione di una persona, e forse la sua carriera. Il segretario Britannico Kenneth Clarke recentemente ha dovuto chiedere scusa per aver detto che alcuni stupri erano meno gravi di altri, implicando la necessità di una discriminazione legale. La sfilata di gaffes e le successive scuse striscianti è diventata una costante caratteristica della vita pubblica.
Nel suo classico Saggio sulla libertà, John Stuart Mill ha difeso la libertà di parola per il motivo che la libera informazione è stata necessaria per far progredire la conoscenza. Restrizioni su determinate aree di indagine storica si basano sulla premessa opposta: la verità è conosciuta, ed è immorale metterla in dubbio. Questo è assurdo, ogni storico sa che non esiste una cosa come la verità storica finale.
Non è compito della storia difendere l'ordine pubblico o la morale, ma stabilire cosa è successo. La storia legalmente protetta assicura che gli storici giochino sul sicuro. A dire il vero, il principio di Mill spesso richiede la tutela dei diritti di personaggi sgradevoli. David Irving scrive una storia menzognera, ma la sua persecuzione e la sua prigionia in Austria per "negazione dell'Olocausto" avrebbero fatto inorridire Mill.
Al contrario, la pressione sulla "correttezza politica" si basa sulla tesi che la verità è inconoscibile. Affermazioni sulla condizione umana sono essenzialmente una questione di opinione. Perché una dichiarazione di opinione da parte di alcuni individui è quasi certo che possa offenderne degli altri, e dato che tali dichiarazioni non contribuiscono alla scoperta della verità, il loro grado di offensività diventa l'unico criterio per giudicare la loro ammissibilità. Da qui il tabù di certe parole, frasi e argomenti che implicano che certi individui, gruppi o esperti siano superiori o inferiori, normali o anormali; di conseguenza la ricerca di modi sempre più neutrali per etichettare i fenomeni sociali, privando di conseguenza la lingua del suo vigore e interesse.
Un esempio classico è il modo in cui "famiglia" ha sostituito "matrimonio" in un discorso pubblico, con l'implicazione che tutti gli "stili di vita" hanno lo stesso valore, nonostante il fatto che la maggior parte delle persone persistano nel volersi sposare. E' diventato un tabù descrivere l'omosessualità come una "perversione", anche se questa era proprio la parola usata nel 1960 dal radicale filosofo Herbert Marcuse (che elogiava l'omosessualità come espressione di dissenso). Nel clima odierno ciò che Marcuse avrebbe chiamato "tolleranza repressiva", sarebbe chiamato "stigmatizzare".
L'imperativo sociologico dietro la diffusione della "correttezza politica" è il fatto che non viviamo più in una società patriarcale, gerarchica, mono-culturale, che presenta un generale, se non riflesso, accordo sui valori fondamentali. Gli sforzi patetici di inculcare un senso comune di "Britannicità" o "Dutchness" in società multiculturali, per quanto ben intenzionati, attestano la perdita di una comune identità.
Il linguaggio pubblico è così diventato la moneta comune di scambio culturale, e tutti sono attenti a badare ai propri modi di dire. Il risultato è una moltiplicazione di parole ambigue che raffreddano il dibattito politico e morale, e che creano un divario crescente tra il linguaggio pubblico e quello che molte persone comuni pensano.
Abbiamo bisogno di media liberi di esporre gli abusi di potere. Ma il giornalismo investigativo si scredita quando "mette in mostra" la vita privata di persone famose quando nessun problema di interesse pubblico è coinvolto. Il gossip divertente si è trasformato in un assalto alla privacy, con i giornali che affermano che qualsiasi tentativo di tenerli fuori delle camere da letto della gente è un assalto alla libertà di parola.
Voi sapete che una dottrina è in difficoltà, quando nemmeno quelli che sostengono di difenderla capiscono che cosa significa. Da questo, la dottrina classica della libertà di parola è in crisi. Dovremmo risolvere il problema rapidamente - legalmente, moralmente e culturalmente - se vogliamo conservare un giusto senso di ciò che significa vivere in una società libera.

Fonte:
http://vocidallestero.blogspot.com/2011/07/liberta-di-parola-sotto-assedio.html#more

mercoledì 13 luglio 2011

Stipendi...

Secondo una recente indagine pubblicata dal Corriere della Sera emerge che un consigliere regionale del Molise percepisce mensilmente  uno stipendio più alto di quello del governatore di New York. Stesso discorso per un deputato sardo o un presidente di giunta veneto, così come per un presidente calabrese: e purtroppo queste non sono novità, almeno per chi da lustri segue con attenzione questo andazzo nazionale nostrano. Da anni ribadiamo di essere "contro il sistema", suscitando a volte qualche perplessità e qualche domanda: questo è ciò che intendiamo, ossia di voler fortemente ribaltare questo stato di cose. Non è infatti accettabile che una classe politica come quella nostrana, litigiosa e spesso inconcludente, percepisca simili ingiustificati stipendi soprattutto in un momento in cui a tutti sono richiesti sacrifici. La voragine economica dei costi politici (in Sicilia sono stati arruolati e ben retribuiti anche esperti di rane verdi...) è un cancro nei confronti del quale occorre prendere coscienza: ciò magari non risolverà il problema del Pil come taluni sottolineano, ma porterà altri innumerevoli benefici: primo tra tutti quello di rendere meno ridicola al mondo questa nostra malandata nazione. Questione di decenza, concetto che in Italia sembra ormai appartenere più al libro Cuore che al nostro presente: etico e politico.

                                            Lodovico Ellena

Ovviamente concordo in pieno con Lodovico, ed aggiungerei che la "politica di professione" è una delle sciagure della nostra epoca.
Mi chiedo però se - quanto meno alla luce dei fatti degli ultimissi giorni, sui quali torneremo - si possano ancora definire i nostri politici come semplicemente "litigiosi ed inconcludenti". Io li definirei clamorosamente ignoranti ed incompetenti, oppure in malafede. Ma ne riparleremo. 

domenica 10 luglio 2011

...sempre più vicini all'orlo del precipizio...

Ancora una precisa analisi della situazione economica dal sito ControInFormazione. Rinvio al sito stesso per i commenti appropriatissimi di Gabriele Gruppo.

La finanza e le sue campane a morto


Ue: alla Grecia servono altri 85 mld euro per un nuovo piano – Ministro turismo: non venderemo le isole
L’Fmi ha finalmente concesso la quinta tranche di aiuti ad Atene, la prima sotto la direzione del nuovo direttore generale Christine Lagarde. Ora però si riapre la vicenda del secondo piano di aiuti alla Grecia, visto che il primo da solo non basta. Ma di quanto sarà questo secondo aiuto dove il governo del Cancelliere tedesco Angela Merkel vuole avere la partecipazione dei privati, fatto che si scontra con l’opposizione della Bce e delle agenzie di rating pronte a bocciare l’ipotesi come «selected default»?
Da giorni le banche private si sono riunite prima a Parigi e poi a Roma senza però trovare una soluzione, al punto che ormai si pensa di rinviare il tutto a settembre. Ma anche sulla dimensione del nuovo piano di aiuti non c’è accordo. Un recente rapporto di luglio della Commissione europea valuta in 172 miliardi le esigenze finanziarie complessive fino a metà 2014 della Grecia (quasi 127 miliardi a metà 2013), di cui 91,4 miliardi per rimborso di debito in scadenza e 38,3 miliardi per il deficit pubbblico). Dei 172 miliardi, 57 però saranno coperti dal piano attuale e 30 dalle privatizzazioni greche. Il totale da finanziare dunque sarebbe pari a 85 miliardi di euro (115 includendo le privatizzazioni). Una bella cifra di questi tempi di magra e di paesi periferici sotto attacco. Un tema che forse sarà al vaglio del prossimo consiglio dell’eurogruppo che a questo punto avrà qualche motivo in più per cercare di fermare l’effetto contagio.
Il sì alla quinta rata del Fmi è importante visto che non era affatto scontato: il Fondo può fare prestiti se nel corso dei dodici mesi successivi ha la certezza che il paese abbia fondi a sufficienza per ripagare il prestito. L’approvazione della nuova tranche del prestito ad Atene fa seguito all’imposizione di nuove misure di austerità e riforme strutturali per 28 miliardi di euro dal 2011 al 2015 e 50 miliardi nuove privatizzazioni, che Lagarde ha definito positive pur affermando che «devono essere accelerate».
Isole in vendita
Da segnalare infine che il ministro del Turismo greco Pavlos Geroulanos in un’intervista al quotidiano Sueddeutsche Zeitung ha escluso l’intenzione del Governo di «vendere isole» nel piano di privatizzazizone da 50 miliardi di euro. «Vogliamo sviluppare il nostro paese non venderlo», ha ribadidto il ministro ammettendo però che ci sono alcune isole greche appartenenti a privati in vendita.
fonte http://www.ilsole24ore.com/
PIIGS, stiamo arrivando

Italia sotto attacco speculativo, con dei numeri che fanno impressione. E che non trova nelle parole pronunciate tatticamente dall’ex numero uno di Bankitalia Mario Draghi un sollievo. Anzi. E questo è un segnale preoccupante, perché lo stesso draghi sta per sedersi alla presidenza della Bce, la banca centrale europea. Niccolò Mancini, trader a Milano e collaboratore di E il Mensile, guarda i numeri e li traduce per PeaceReporter.
Partiamo da parole ostiche ai più. Il differenziale fra i rendimenti dei titoli di stato italiani e tedeschi ha toccato un picco con quota 245 punti base. Traduciamo?
Guardando i numeri dal 3 giugno a oggi, cioè un periodo molto breve, il Btp a 10 anni ha perso il 5, 5 percento. Il Btp a 10 anni è quello della pensionata che vuole stare tranquilla sui suoi risparmi. Stiamo assistendo a un colpo pesantissimo. Stiamo perdendo terreno su tutti. Rispetto all’ indice tedesco registriamo una differenza – spread – fra le due Borse di venti punti percentuali a favore della Germania.
Il dato politico: in un Paese in cui l’ex numero uno della Banca centrale si appresta a diventare presidente della Banca centrale europea è paradossale che ci si trovi sotto attacco. L’ultima spallata l’ha data l’inchiesta P4 con il caso di Marco Milanese, che ha coinvolto anche il ministro Giulio Tremonti, l’unico referente, la figura meno discutibile di questo governo, l’uomo in cui hanno fiducia i mercati. E questo ha dato il via libera a una situazione che è già difficile dall’inizio di questa settimana che va sotto il titolo: attacco all’Italia. Ci sononvoci e rumors che ci annunciano un declassamento da parte di Moody’s
Chi attacca l’Italia?
La speculazione internazionale, identificabile in quattro o cinque grandi banche, come Goldman Sachs o Jp Morgan, legate a qualche hedge fund aggressivo L’Italia finisce con le spalle al muro.
I prezzi dei titoli di stato scendono e quindi si alza il rendimento, quindi lo stato deve pagare più interessi. Quello che sta succedendo oggi porta a far sì che una metà della manovra finanziaria che avrà effetto dal 2013, se ne è già andata in fumo. Questi sono numeri, non opinioni. L’aumento dei tassi fa diventare ininfluente la manovra che colpisce sempre i soliti noti.
Le agenzie di rating giocano sporco
Certo, ma il problema c’è fino a quando non ci sarà una regolamentazione delle agenzie di rating. Prendiamo il Portogallo. Declassato a spazzatura, ogni fondo che avesse avuto dei titoli di stato portoghesi era costretto, per regolamento, a venderli. Tranne la Bce, che ieri ha dato una svolta mai vista, accettando titoli portoghesi come garanzia. Una cosa mai vista. La Bce avrebbe dovuto, seguendo la normale procedura, rifiutare quei titoli e certificare il default del Portogallo. La nostra situazione si è incanalata su una strada che porterà la I italiana a entrare nei cosiddetti PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna) trasformandoli in PIIGS.
Perché non c’è una regolamentazione delle agenzie di rating?
Tremonti nel 2008 durante la grande crisi delle banche, aveva detto che si doveva togliere lo strapotere alle agenzie del rating, che i derivati stavano tornando a una situazione pre 2008, dipingendo una situazione con chiarezza. È lì che sono intervenuti Usa e Gran Bretagna, che vivono anche grazie al rating e che hanno rapporti stretti con le stesse agenzie. È un problema di quei paesi che hanno sul proprio territorio le banche più aggressive, che riescono a bloccare la riforma e la regolamentazione del rating.
Se Moodys taglia e declassa l’Italia?
Allora lo Stato italiano pagherà più caro il proprio debito. Non si deve creare panico, il rischio non è immediato, ma è quello che porta al default: con i tassi di interesse che schizzano e uno Stato che deve emettere nuovi titoli e garantire rendimenti più elevati si dà il via a una spirale di questo tipo.
Riflessi politici?
I mercati stanno mandando a casa il governo. Possono riuscire a resistere a Casini, a Bersani, a Di Pietro, ma ai mercati non può resistere nemmeno Berlusconi, anche perché a differenza dei politici della Prima repubblica ha ancora aziende quotate in Borsa. Più tira la corda, più è costretto ad affrontare rischi.

I segni tangibili del disastro morale.

Una piccola notizia, pubblicata sul Corriere della Sera del 25 giugno a firma di Alessandro Cannavò, che dice molto sul disastro morale di un popolo. 

 

Siracusa: il monumento ai Caduti distrutto dai vandali

 

L’oltraggio delle scritte vandaliche sui nostri muri è spesso pari alla stupidità dei messaggi lasciati con lo spray. Quando poi a essere imbrattati sono i monumenti, si percepisce un chiaro senso di violenza. Il monumento ai caduti d’Africa di Siracusa è forse l’esempio più impressionante di una sconfitta del vivere civile. La struttura, solenne, articolata e retorica come molte costruzioni di epoca fascista, ricorda, con i nomi incisi sulla pietra, tutti i luoghi delle battaglie avvenute tra il 1935 e il 1936 durante la campagna italiana nel Corno d’Africa. Una serie di statue circondano il memoriale. Il monumento si trova in un posto splendido, in località Cappuccini: un piazzale a picco sul mare che sovrasta una falesia e si confronta in lontananza con l’isola di Ortigia. Una piazzola attorno invita la gente a sostare sui gradoni soprattutto al tramonto quando alla seduzione del panorama si aggiunge una fresca brezza. C’è anche un chiosco che induce a chiacchierare amabilmente sorseggiando una bibita.
Ed è proprio questo quadretto idilliaco che contrasta e diventa paradossale con lo scempio che affligge il monumento: messaggi d’amore come quelli che si trasmettono sulle tv locali, frasi goliardiche, disegni osceni: tutto copre la pietra fino a dove è stato possibile arrivare. E poi i danni: mattonelle scheggiate e divelte, alla statua del lavoratore avevano persino tolto il piccone e spezzandolo l’avevano gettato tra gli scogli. In passato il monumento è stato ripulito ma, come spesso avviene, i vandali si sono puntualmente ripresentati, indisturbati nella loro ottusa cretineria. Invece di contrastarli con nuove misure, sembra che l’amministrazione ora accetti la sconfitta: un’altra da aggiungere a quelle delle drammatiche spedizioni africane.
Ecco che il monumento diventa la metafora dell’ignoranza sul nostro passato, dell’insensibilità verso la bruttezza estetica, della rassegnazione verso l’arroganza. Un’agghiacciante normalità nella quale crescono i bambini che giocano attorno alla costruzione, arrampicandosi sulle statue, sotto gli occhi di genitori insensibili a ogni mancanza di decoro. Con buona pace del sacrificio dei nostri padri, del senso della Patria, dell’orgoglio di una nazione. Il monumento ai caduti d’Africa di Siracusa merita il candore garantito allo splendido Duomo barocco. Ripuliamolo, recintiamolo, proteggiamolo con le telecamere. In cima a quella falesia deve ergersi l’estremo sussulto di dignità, il simbolo di una riscossa civile che non può più tardare.

sabato 9 luglio 2011

Ancora Ida Magli.

Un altro bell'articolo di Ida Magli, dal sito ItalianiLiberi.
Assolutamente da leggere e da meditare.


 Si stanno rappresentando in questi giorni, in diversi paesi d’Europa, straordinarie commedie dell’assurdo. Gli attori più in vista sono gli uomini di Governo - in Francia, in Spagna, in Grecia, in Germania, in Italia - ma sono coadiuvati talmente bene in questa recita da tutti gli altri responsabili della vita politica e sociale, e prima di tutto dai giornalisti, che noi, poveri cittadini-sudditi, non riusciamo a capire perché il loro frenetico agire ci sembri così privo di una concreta direzione di senso e temibile proprio per questo.
 Lo spettacolo offerto dagli “attori” italiani è tragico e surreale al tempo stesso. Berlusconi, Tremonti,  Bossi, recitano a meraviglia i loro piccoli scontri sul bilancio, sul trasferimento di qualche Ministero al Nord, sulla necessità del governo centrale di aiutare lo smaltimento dei rifiuti a Napoli, come se davvero questi fossero i problemi politici di una Nazione che non soltanto deve provvedere alla vita ordinata di 60 milioni di persone ma che, per la sua posizione geografica, per i suoi impegni con l’Ue e con la Nato, è al centro di interessi economici e militari a livello mondiale. Le opposizioni stanno al gioco con una puntualità e una solerzia quasi incredibili, tenendo ben fissa l’attenzione dei cittadini, ma in apparenza anche la propria, sui piccoli particolari di queste dispute come se davvero fossero racchiusi qui i maggiori problemi degli Italiani. Se qualche volta la polemica sembra diventare più forte, è soltanto perché lo scambio di invettive ha assunto termini maggiormente violenti e volgari, ma si tratta in tutti i casi di invettive a vuoto: servono ad alimentare la commedia. Della politica vera, dei drammatici problemi veri, non parla nessuno, né al governo né all’opposizione.
I problemi più importanti
Sono problemi che chiunque è in grado di vedere e che, volendo limitarsi esclusivamente ai più gravi ed impellenti, possiamo indicare nel modo seguente:
  1. L’ inesistenza dell’Europa come realtà politica, dalla quale però dipendiamo come se esistesse (la vicenda della guerra in Libia decisa da Sarkozy ne è una soltanto una delle ultime e sconvolgenti prove).
  2. L’ appartenenza dell’Italia alla Nato, organizzazione militare che non si sa più a quale direttiva politica obbedisca data la mancanza di un’autorità politica europea e la contemporanea perdita di potere dei singoli Stati d’Europa (nessuno s’interroga, per esempio, su quale ruolo stia svolgendo nella politica estera l’Inghilterra, sempre sorella degli Stati Uniti ma con un piede dentro e uno fuori dell’Ue).
  3. Il potere assoluto dei banchieri, a livello mondiale ed europeo, che ha completamente esautorato i politici nazionali e sta mano a mano svuotando l’essenza stessa dei singoli Stati costringendoli a vendere i loro possessi e finanche il proprio territorio (la Grecia è soltanto la prima di una catena già pronta).
  4. L’irrazionalità di una sola moneta come espressione e strumento di 17 Stati totalmente differenti per il loro peso politico e le loro dimensioni economiche. E’ evidente che, o si disfa al più presto questa costruzione sul vuoto, oppure si verificherà un catastrofico fallimento collettivo. C’è forse bisogno di una qualsiasi dimostrazione in questo campo? L’euro è soltanto il diverso nome del marco. Un marco privo, però, dello Stato di cui era espressione. Per questo la Germania ha funzionato fino adesso come lo “Stato ombra” dell’euro. Ma è chiaro che la Germania non può continuare a reggere questa mastodontica finzione senza farsi trascinare anch’essa nel baratro: prestarsi soldi fra debitori (l’Italia, tanto per fare un esempio, ha iscritto nelle uscite del proprio bilancio il denaro prestato alla Grecia) è una pratica da “pazzi”, che nessun “povero” metterebbe in atto e che nessun usuraio accetterebbe, ma che i banchieri della Bce e del Fmi fingono di trovare normale e necessaria, spingendola fino all’estremo al solo scopo di rimanere alla fine  “proprietari”, concretamente proprietari di tutta l’ Europa dell’euro.
  5. L’eliminazione degli intellettuali dalla leadership, concordemente attuata da tutti i partiti europei, fatti esperti dallo scontro-sottomissione degli intellettuali nella Russia bolscevica. I partiti più importanti in Europa sono anche oggi quelli essenzialmente comunisti, reduci del comunismo e più o meno suoi eredi. L’Italia ne rappresenta la più fulgida testimonianza: il Presidente della Repubblica è appartenuto per tutta la vita, fino dai tempi di Stalin, al Partito comunista. Con il trattato di Maastricht gli intellettuali sono stati praticamente aboliti; non si sente più nessuna voce che possieda autorità tranne quella dei banchieri. Segno evidente di una tragica realtà: se sono morti gli intellettuali, è morta la civiltà europea.
  6. La complicità di tutti i mezzi d’informazione con il disegno dei politici e dei banchieri. Una complicità così assoluta quale mai si era verificata prima nella storia perché non obbligata da nessuna censura. Gli oltre 500 milioni di cittadini d’Europa coinvolti nell’operazione disumana di lavorare senza saperlo al proprio suicidio, vi sono stati condannati non tanto dai politici quanto dai giornalisti. Senza il silenzio dell’informazione non sarebbe stato possibile condurre in porto un disegno di puro potere quale quello in atto. 
Politici e banchieri in commedia
  Se ciò che ho messo sinteticamente in luce è il quadro generale, per quanto riguarda i piccoli avvenimenti di quest’ultimo periodo a casa nostra non si può fare a meno di rilevare gli errori compiuti dai partiti di governo. Il Pdl e la Lega avrebbero avuto il dovere di piegarsi almeno per un momento a riflettere sui motivi delle sconfitte riportate nelle ultime elezioni e nei referendum. Per farlo, però, sarebbe stato necessario abbandonare il gioco della finzione come unica attività dei politici, uscire dalla “rappresentazione”, scendere dal palcoscenico dell’assurdo, cosa che evidentemente non hanno il coraggio di fare. Che non sia facile è chiaro. Bisognerebbe, infatti, rivelare agli Italiani che la sovranità e l’indipendenza della Nazione non esistono più, che tutte le funzioni vitali della società e del potere sono state consegnate in mani straniere e che quello che sembra ancora autonomo ed efficiente è di fatto pura apparenza. E’ sufficiente un solo esempio.

  Tutto il gran parlare e il gran manovrare che si verificato in questi giorni intorno ai nomi del Signor Draghi, del signor Bini Smaghi e di altri importanti banchieri, appartiene al mondo della “rappresentazione”, della “commedia surreale”. In realtà i politici e il governo italiano non possiedono in questo campo alcun potere. Il signor Draghi, il signor Bini Smaghi, il signor Trichet (presidente della Bce) sono, chi in un modo chi in un altro, i proprietari, i possessori, gli “azionisti” delle Banche centrali. La Banca d’Italia, la cui direzione il signor Draghi sta per lasciare nelle mani del probabile signor Bini Smaghi, non è per nulla la Banca “di” Italia, non appartiene allo Stato italiano; quel “di”, particella possessiva, è un falso perché si tratta di una banca di proprietà di cittadini privati, possessori, come il signor Draghi,  di parti del suo capitale, e continua a portare il nome di quando era effettivamente di proprietà dello Stato italiano ed emetteva la moneta dello Stato, esclusivamente allo scopo di ingannare i cittadini italiani. Stesso discorso si può fare per la Banca centrale europea, anch’essa proprietà di ricchissimi banchieri privati come i Rothschild, i Rockfeller e gli altri banchieri possessori del capitale della Banca d’Inghilterra, della Banca d’Olanda  e ovviamente anche della Banca d’Italia come il signor Draghi. Lo Stato italiano, quindi, non ha, come nessun altro Stato europeo, alcun potere sulle nomine e tutto il gran parlare che si è fatto sul rispetto delle “procedure” da parte del Governo, sull’approvazione da parte del Parlamento europeo della nomina di un “illustre italiano” nelle vesti del signor Draghi, è stata una commedia, finzione allo stato puro: i banchieri si scelgono, si cooptano fra loro, tenendo nascosto il proprio potere dietro la copertura dei politici.

  In conclusione: non c’è nessuno, in Italia, che non lavori a ingannare i cittadini, ivi compresi - è necessario ripeterlo e sottolinearlo - i giornalisti, la cui complicità è determinante in quanto costituisce il fattore indispensabile alla riuscita della rappresentazione.

  Rimane la domanda fondamentale: perché i politici hanno rinunciato al proprio potere trasferendolo nelle mani dei banchieri? Nessuno ha ancora dato una risposta soddisfacente a questo interrogativo ed è questo il motivo per il quale siamo tutti paralizzati: siamo prigionieri in una rete fittissima ma non sappiamo contro chi combattere per liberarcene.
Il regno di Bruxelles

  Laddove i banchieri non sono soli a comandare, troviamo insieme ad essi altri privati, non soggetti a nessuna votazione democratica, quali i Commissari dell’Ue e i Consiglieri del Consiglio d’Europa, di cui probabilmente gli Italiani non conoscono neanche il nome. In quel di Bruxelles le commedie dell’assurdo abbondano, tanto più che, lontani da qualsiasi controllo, si sono moltiplicati i ruoli, gli attori e i fiumi di denaro necessari alle rappresentazioni. Gli obbligati “passaggi” di alcune normative attraverso il Parlamento europeo, per esempio, costituiscono soltanto una delle innumerevoli, mirabili finzioni che sono state ideate per ingannare i poveri sudditi dell’Ue. Infatti le decisioni importanti vengono  prese in ristretti gruppi di élite (il Bilderberg, l’Aspen Institute, per esempio) e la loro consegna al Parlamento obbedisce ad un rituale pro-forma, ad un’apparente spolverata di democraticità, così come soltanto pro-forma vengono consegnate poi per la ratifica finale ai singoli Parlamenti nazionali. Il nostro Parlamento, ubbidientissimo e servile come nessun altro, a sua volta le approva  senza preoccuparsi neanche di farcelo sapere. A tutt’oggi l’80% delle normative in vigore in Italia è dettato da Bruxelles, ma gli Italiani credono ancora di essere cittadini di uno Stato sovrano.

  Insomma, dobbiamo guardare in faccia la realtà: lo Stato italiano esiste soltanto di nome e noi, suoi sudditi, serviamo a tenere in vita, con i nostri soldi e la nostra credulità, una miriade di istituzioni “crea carte” e “passa carte” prive di reale potere. Si tratta, però, di istituzioni che, come succede sempre negli Stati totalitari, creano per sé a poco a poco il potere che non possiedono costruendo e organizzando cerchi sempre più larghi di nuove istituzioni, di inestricabili burocrazie. Non per nulla un esperto della Russia bolscevica quale Bukowski ha affermato che l’Ue ne costituisce una copia. Non si tratta di un’affermazione esagerata: gli avvenimenti che lo provano sono sotto gli occhi di tutti, anche se per la maggioranza dei cittadini, accecati dalla “rappresentazione” della democrazia, è difficile accorgersene. Ma presto la burocrazia mostrerà la durezza della sua faccia.
Dittatura europea e Val di Susa
 E’ di questi giorni lo scontro dei cittadini con il governo “democratico” a causa della cosiddetta “Alta velocità” in Val di Susa. Si tratta di un’opera imposta dall’Ue, ovviamente non per collegare Torino a Lione, affermazione incongrua e ridicola, ma per poter fingere che l’Europa sia un unico territorio, trasformando le Alpi e l’Italia in un “corridoio” europeo (non sono io ad avergli dato questo nome: l’hanno chiamato così coloro che si sono autoproclamati proprietari dell’Europa). “Traforare le Alpi”per far passare un treno da Torino a Lione è un’operazione talmente folle che è impossibile trovare aggettivi sufficienti a definirla. L’insensibilità dei padroni dell’Europa e dei loro servi italiani per ciò che è la “natura”, il territorio, il paesaggio, come la prima e assoluta bellezza di cui è divinamente ricca l’Italia, sarebbe sufficiente a negarne l’autorità e il potere. Deve essere comunque chiaro a tutti, e affermato con assoluta determinazione, che il territorio di una Nazione è proprietà del suo popolo, e non può essere alienato in nessun modo se non per espressa volontà del popolo. I politici odierni non sono  monarchi, non possiedono, come un tempo i re, i territori che governano. Il governo italiano ha dimostrato in questa occasione, più e meglio che in molte altre, il suo disprezzo per la democrazia, opponendo la forza della polizia alla sovranità dei cittadini, mentre il suo primo dovere sarebbe stato quello di rifiutare l’imposizione dell’Ue per un’opera  ingegneristicamente mostruosa, rischiosa fino all’impossibile, priva di una qualsiasi giustificazione. Appellarsi al denaro fornito dall’Ue, come i politici sono soliti fare,  costituisce l’ennesima prova del disprezzo che nutrono per l’Italia, per il suo territorio, per la sua bellezza. Una prova, inoltre, della loro incapacità a credere che esista qualcuno al mondo la cui anima non somigli a quella dei banchieri.

martedì 5 luglio 2011

Gli indignati italiani crescono.

Ne avevamo già parlato in un post del 1° giugno. Ora da Torino arriva questo comunicato stampa del MS-FT:

Con “Domus Civitas” parte da Torino
la sfida degli “indignados” italiani
al sistema bancario e ai poteri forti

Dal 20 luglio raccolta firme e sit-in permanente davanti a Palazzo Chigi
per portare il sostegno del Governo dai debiti delle banche a quelli delle famiglie.

Torino. L’associazione nazionale “Domus civitas – tutte le vittime / all victims” sposa l’impegno e la battaglia dei cittadini spagnoli e islandesi, per chiedere al Governo italiano l’approvazione di misure urgenti a favore dei cittadini italiani indebitati con le banche.

“A buon titolo possiamo definirci gli “indignados” italiani – sottolinea il presidente nazionale di “Domus Civitas” Bruno Berardie come già è avvenuto sulle piazze di Spagna e d’Islanda, ci adopereremo per chiedere un intervento forte e chiaro dello Stato a sostegno dei tanti, troppi italiani che non riescono più a pagare le eccessivamente onerose rate dei mutui o gli interessi sui prestiti”.

“La nostra associazione – prosegue Berardi – adotterà come riferimento proprio la pacifica rivoluzione islandese, promuovendo una raccolta di firme volta a modificare lo status di privilegi delle banche a discapito dei cittadini”.

Da Torino Berardi lancia la proposta e presenta l’iniziativa che, dal prossimo 20 luglio, vedrà l’associazione “Domus Civitas” attuare un sit-in permanente davanti a Palazzo Chigi: “Ci opporremo ad ogni ulteriore finanziamento pubblico teso a coprire i debiti delle banche e chiederemo interventi concreti per alleviare la situazione delle famiglie”.

Due interviste.

Sul sito www.agenziastampaitalia.it, due interessantissime interviste postate il 1° luglio: una al Prof. Claudio Moffa ed una all'avv. Giorgio Carta, difensore del P.M. Paolo Ferraro.
Da leggere per avere le idee più chiare su vicende di cui i media non parlano.