domenica 29 maggio 2011

Storm ha 4 mesi, ma i genitori non ne rivelano il sesso... perchè politicamente scorretto!!

Dal Sito di informazione leggonline.it:
TORONTO - Storm Witterick ha 4 mesi, gli occhi azzurri, i capelli biondi, le guance paffute. E' adorabile come quasi tutti i bambini della sua età. Cosa lo/la differenzia dagli altri? I genitori, per proteggerlo da scelte che a loro parere derivano solo da stereotipi, hanno deciso di tenere segreto il genere del bambino.
La 38enne Kathy Witterick e il marito 39enne David Stocker hanno deciso così di 'difendere' il bambino da scelte obbligate. Naturalmente nel sesso del bambino non c'è nulla di anomalo, i genitori e i fratelli Jazz di cinque anni e Kio di due e le due ostetriche che hanno aiutato la madre a partorire in casa conoscono il sesso del neonato, ma sanno tenere la bocca chiusa.
Quando il bimbo/a è nato/a i gentitori hanno inviato una mail ad amici e familiari in cui spiegano: "Abbiamo deciso di non rivelare il sesso di Storm per ora - è un omaggio alla libertà di scelta". Gli amici della coppia temono invece proprio il contrario, ovvero che in questo modo si tolga al neonato il diritto di scelta, imponendogli la propria ideologia.


Ora qualcuno mi scriverà che, in questo blog, una notizia di tal genere è fuori luogo, che la follia di due persone non è di interesse collettivo, che dobbiamo occuparci di temi meno banali, ecc.
E forse è anche vero. Però ho voluto postarla ugualmente per segnalare fino a che punto può arrivare il conformismo verso il pensiero unico, verso la globalizzazione delle idee, verso il politically correct. In breve, verso la lobotomizzazione del genere umano. Ho letto da qualche parte che Giovanni Gentile definiva "disgregazione mentale" la rinuncia a pensare con la propria testa e l'adozione incondizionata dei pensieri "di moda" (egli, ai suoi tempi, usava quella definizione con riferimento al pacifismo). Sottoscrivo.     

giovedì 26 maggio 2011

Proposta di legge di iniziativa popolare


I problemi connessi al signoraggio monetario e all'adozione dell'Euro sono ormai sufficientemente noti, ed esistono molti siti e molte pubblicazioni che diffondono notizie in proposito, creando una necessaria consapevolezza nell'opinione pubblica.
Tuttavia, pare che nessuno voglia assumere iniziative concrete per affrontare veramente queste realtà.
E' peraltro di questi ultimi giorni la notizia di una proposta di legge di iniziativa popolare, che l'Associazione Italiani Liberi patrocina presentandola con queste parole:  

Non abbiamo quasi nessuna possibilità di salvarci dalle negative conseguenze dell'Euro che diventeranno sempre più pesanti per la nostra economia dato che i risparmi imposti dall'Ue a causa del debito uccidono tutte le energie e le attività economiche e culturali. Purtroppo nessun partito si fa promotore  dell'abbandono dell'Euro, malgrado si tratti di una decisione fondamentale da prendere prima che tutto l'edificio crolli per la sua mancanza di fondamenta.
Gli Italiani Liberi, convinti di questa necessità, vogliono far conoscere a tutti i loro amici l'esistenza di questa proposta di legge popolare, organizzata dall'amico monetarista Savino Frigiola, pubblicandone il testo e invitandoli, se vogliono, a farla conoscere a loro volta. 

Proposta di legge di iniziativa popolare

Mi pare giusto accogliere l'invito e chiedo quindi ai frequentatori del blog di fare circolare la notizia.

domenica 22 maggio 2011

La coscienza di un popolo.

La vicenda dell'11 settembre si trascina dietro, da cinque anni, un mistero nel mistero.
Nell’edizione del 5 giugno 2006 del New York Times, è apparso un articolo illustrato, su un terzo della pagina A19, sul concetto che gli attacchi terroristici dell’11 settembre furono patrocinati dal governo americano. L’articolo era intitolato “For 9/11 Conspiracy Buffs, a Chance to Compare Notes” [Per i patiti del complotto dell’11 settembre: la possibilità di confrontare delle osservazioni]. Era firmato da Alan Feuer.
Il punto è che l'articolista non l'ha affatto messa in burla, né ha insinuato che i complottisti dell’11 settembre sono adatti essenzialmente all’ospedale psichiatrico. Nulla del genere in tale articolo. Il New York Times ha persino definito i ricercatori dell’11 settembre “scienziati”. Ed è stato fornito il sito web di questi dissidenti: 911Truth.org
L’anomalia del crollo dell’edificio n°7 del World Trade Center, che non venne attaccato in nessun modo visibile, ma che cadde comunque, seppur misteriosamente, è stata citata invece che evitata. Parimenti notati dal Times sono argomenti scabrosi quali il crollo delle torri del World Trade Center mediante “demolizione controllata”, e il fatto che il comando militare che monitora gli aerei “smontò di guardia” il giorno degli attacchi. Il professor Steven E. Jones, fisico, viene riconosciuto dal New York Times come l’antidoto al Rapporto del National Institute of Standards and Technology, che sostiene di aver demolito l’idea che il crollo dell’edificio n°7 del WTC fu un’anomalia di qualsivoglia genere. Viene fornito un lungo URL della relazione confutatoria del prof. Jones.
Il tenore dell’articolo del New York Times è assolutamente rispettoso. Afferma che vi sono buone ragioni per credere che il governo americano fece tutto ciò ai propri cittadini. Una concessione decisamente sbalorditiva, nel “giornale ufficioso” della nazione, in un articolo che occupa un terzo della pagina 19 nella prima sezione del giornale, sotto il titolo “New York Report”.
L’articolo del Times del 5 giugno è senza precedenti; avrebbe dovuto sollevare enormi ondate: l’addetto stampa di Bush avrebbe dovuto esserne interpellato, Ann Coulter l’avrebbe dovuto affrontare, il prof. Jones avrebbe dovuto stare su tutti i network d’informazioni. Il New York Times avrebbe dovuto commentare con un editoriale.
Invece non accadde nulla. Nessuna reazione.
Come è possibile? Per anni la domanda è rimasta senza risposta. Un mistero nel mistero, appunto.
Sul suo blog Andrea Carancini pubblica ora (post del 21 maggio) un'analisi di Michael Hoffman, noto revisionista storico statunitense, che tenta di dare una spiegazione. Una spiegazione agghiacciante.
Non so se Hoffman abbia ragione al 100%, però il suo articolo merita una lettura e un'attenta riflessione, perché tocca "nervi scoperti" del sistema che vanno ben al di là del singolo episodio dell'11 settembre. E' un articolo che non può non interessare ai frequentatori di questo blog perché affronta proprio, direttamente, i temi della verità e della libertà.

Il conto libico e la democrazia.

Dal sito di informazione noreporter.org.
Lo dice senza remore, lo testimoniano i dati in suo possesso:”sono migliaia i posti di lavoro persi dall'inizio della guerra”, ammette Alfredo Cestari, presidente della camera di Commercio ItalAfrica Centrale. La diapositiva scattata dall'associazione (registrata al ministero per il Commercio Estero) non induce all'ottimismo. Soprattutto per le piccole e medie imprese, che “fino al 2010 erano stabilmente impegnate in Libia” e per le quali “l'acquisizione di commesse permetteva loro di mantenersi in vita in Italia”, dice Cestari.
IL DATO   “Solo il 30% del personale si è salvato attraverso la sua riconversione e il riutilizzo in altri ambiti aziendali”, si legge nella nota diffusa dall'associazione. Un'ecatombe soprattutto per quegli imprenditori che avevano spostato in Libia il loro core business, convinti che il trattato di amicizia italo-libico firmato quasi tre anni fa potesse essere il garante dei loro commerci. Il raìs sembrava essersi ammansito dopo la crisi dell'86 (con attacco missilistico a Lampedusa) e i Piccoli sono andati a rimorchio delle grandi aziende di casa nostra, costruendo un principio d'indotto anche sull'altra sponda del mediterraneo.
L'INDOTTO “Lavoravano nella subfornitura edilizia, dietro le commesse vinte da Impregilo e Astaldi, nel settore dei trasporti per Iveco e Grimaldi e avevano sfruttato l'onda lunga che i contratti di fornitura di petrolio e gas vinti da Eni (e la sua controllata Saipem), Edison e Tecnimont, potevano garantire per un buon approvvigionamento energetico. Ecco perché si erano spinti anche in mercati inesplorati, come quello dei mangimi (come la romagnola Martini Silos), nel settore delle telecomunicazioni (dietro il colosso Telecom, anche la Sirti, che produce appunto impiantistica per le reti di telecomunicazioni) e nella meccanica industriale, come la bolognese Technofrigo (impianti di refrigerazione) e la cremonese Ocrim (molini).
LO SCENARIO  Spiega Cestari: “il bombardamento dei siti di estrazione di petrolio da parte di Gheddafi significa che sarà quasi impossibile per l'Eni riprendere la fornitura a guerra finita (rispettando così i contratti già firmati, ndr.)”. E teorizza un conto a dieci cifre già da ora â per tutto il sistema-Italia: “il volume d'affari che si è interrotto ha abbondantemente sfondato il tetto di 100 miliardi di euro”. E se il colosso di San Donato Milanese ha potuto reggere l'onda d'urto, per le imprese dell'indotto i “licenziamenti e le procedure di cassa integrazione” sono state inevitabili.
Fabio Savelli
Presidente Napolitano è sempre fiero del ruolo svolto dall'Italia nell'aggressione a Tripoli, un ruolo che lei sta esaltando da quando abbiamo ceduto all'aggressione anglofrancese e che ha  sottolineato sabato scorso quando è anadto in visita in Israele? “Una vita per la democrazia” ha detto parlando di se stesso.
Ebbene i lavoratori  ringraziano lei, il governo e l'opposizione, per la democrazia.
Perché è questa la democrazia.

giovedì 19 maggio 2011

Fini e le sconfitte apparenti.

Più di un frequentatore del blog pensa che non dobbiamo occuparci di politica partitica, "spicciola": si tratta di miserie che non meritano la nostra attenzione.
Come ho già scritto, non sono d'accordo. Questa è la politica nazionale con cui ci troviamo a confrontarci, dobbiamo conoscerla e disinteressarsene sarebbe un errore.
Mi pare quindi utile proporre un'intervista rilasciata da Marco Tarchi alla giornalista Graziella Balestrieri di ilfoglio.it, dedicata alla situazione di FLI dopo le amministrative del 14-15 maggio, che contiene non pochi spunti di riflessione.
Mi permetto, al termine, una mia telegrafica osservazione.
  
Visti i primi risultati, FLI sembra aver presentato candidati inesistenti. Che partito è questa strana creatura di Fini?
È, al momento, un contenitore privo di un’univoca forma programmatica, nel quale sono confluiti soggetti disparati, uniti solo da motivi di frustrazione nei confronti dei dirigenti, nazionali o locali, del Pdl. C’è un po’ di tutto: ex missini che hanno sempre vissuto la leadership del parvenu Berlusconi come un’offesa alla presunta superiorità della propria tradizione ideologica ed etica, quadri intermedi di Alleanza nazionale e Forza Italia rimasti schiacciati nelle faide locali e convinti di essere stati trascurati a profitto di portaborse e leccapiedi, qualche idealista alla ricerca di un luogo dove coltivare la pianticella della propria utopia e un numero non indifferente di opportunisti convinti di aver puntato su un cavallo vincente. Era difficile immaginare da questo amalgama confuso potessero scaturire candidature di alto profilo; tutt’al più si poteva puntare su qualche ras locale. E i risultati sembrano dimostrare che il neonato partito ha già il fiato corto.

Fini dovrebbe secondo lei lasciare la poltrona da Presidente della Camera?
È poco realistico giudicare la politica con il metro dell’etica. E un dato certo è che, se lasciasse lo scranno in questo frangente, Fini perderebbe gran parte della visibilità di cui gode. Tanto più che nell’incompiuto Terzo Polo ha concorrenti alla leadership che lo metterebbero in ombra: oggi Casini, in un ipotetico domani Montezemolo. Quindi, restare dov’è gli conviene. E credo che questa sia l’unica considerazione che gli interessa.
La frattura Urso-Bocchino è una questione che Fini non ha saputo gestire, ed in ogni caso secondo lei come gestirà i ballottaggi di Milano e Napoli?
Nel primo caso, la responsabilità è sua e mi sembra che la distanza fra i punti di vista dei due personaggi citati sia destinata a crescere, con prevedibili esiti disgregativi. Nel secondo no: dubito che la strategia del Terzo Polo sia nelle mani della componente Fli. E l’Udc cercherà di calcolare i vantaggi che potrebbero derivarle dalle varie opzioni praticabili senza troppo curarsi dei bisogni del contingente alleato.

Fli per ritrovare la propria identità deve allearsi con le sinistre o ritornare alla destra?
Prima di ritrovarla, un’identità dovrebbe averla – e non mi sembra, anche ma non solo per i contrasti fra le sue diverse “anime”, che questo sia il caso. Un’alleanza con la sinistra la squalificherebbe agli occhi di gran parte del suo elettorato potenziale e la ridurrebbe a classico vaso di coccio tra vasi di ferro (o comunque di materiale meno fragile). Un ritorno a destra si configurerebbe come un’umiliazione, e dubito che, al di là delle immaginabili proclamazioni di facciata, verrebbe accolto nello spirito della parabola del Figliol Prodigo. Nel migliore dei casi, il Pdl o la sua successiva incarnazione si aprirebbe a dirigenti e seguaci della componente moderata, ma non a Fini e men che meno ai Bocchino, Briguglio, Granata e sodali.

Esiste ancora oggi un concetto di destra, se si quale e dove trovarlo (spostata verso il centro, verso la sinistra)?
Trattare in sintesi un quesito di questo peso, su cui il dibattito scientifico ruota da decenni, è arduo. Ci provo, limitandomi a dire che, oggi più che mai, i concetti di destra e sinistra possono avere un’utilità, per comprendere le dinamiche politiche ed esercitarvi un influsso, solo se sono considerati categorie del tutto convenzionali, che si prestano a definire prese di posizione su singoli temi e in specifici momenti. In altre parole, si possono identificare comportamenti (e convinzioni che li determinano) che si situano, in relazione a un determinato argomento o problema, più a destra o più a sinistra di altri. Ma chi si colloca più a destra in relazione ad una certa questione, ad esempio su temi etici, può nel contempo stare più a sinistra su un’altra, poniamo temi di politica sociale, o internazionale, o altro. Andare alla ricerca di “essenze”, di sinistre e destre “autentiche” e “integrali” è senz’altro possibile su un astratto piano teorico, ma i riscontri sul terreno delle scelte pratiche rischiano di risultare introvabili. Va detto comunque che, negli ultimi decenni, i partiti che si dicono di destra o di centrodestra, per cercare di apparire più in linea con il presunto vento della storia, hanno accentuato una tendenza già in atto da tempo a far propri punti di vista e parole d’ordine nati e cresciuti a sinistra – dal materialismo pratico (in questo caso in una versione mercantile e consumista) all’utilitarismo, dalla filosofia dei diritti dell’uomo all’individualismo, dall’indifferentismo etico al culto del progresso industriale.

Lei conosce molto bene il Presidente della Camera per cui: è sempre stato così (ovvero politicamente vago) o ha un'idea ben precisa in testa? Ovvero: dove sta andando Fini?
Ho conosciuto bene il Fini degli anni Settanta e inizio Ottanta, e già allora mi è parso molto interessato alla politica intesa come luogo di conquista del potere e assai poco ai suoi risvolti culturali e ideali. Si è sempre definito un pragmatico; anzi, per dirla con il suo mentore Almirante, un “pragmatista”. Ma il suo limite, che si è rivelato precocemente, è di non saper accoppiare la spregiudicatezza tattica e il senso delle opportunità – che per un politico di professione sono doti importanti – alla sagacia strategica, che gli è sconosciuta. Ogni volta che si è inoltrato su questo terreno, ha incontrato le sabbie mobili. Sta accadendo anche in questa fase: da anni, resosi conto che non sarebbe mai stato incoronato delfino da Berlusconi, ha deciso di accreditarsi come l’unico politico di spicco riflessivo, dialogante e ligio alla prassi istituzionale del centrodestra, sperando in tal modo di essere giudicato dalla controparte – cioè dal centrosinistra – l’uomo giusto per guidare il governo del paese qualora Berlusconi fosse stato traumaticamente tolto di scena e si fosse entrati in un improvviso periodo di incertezza. Sfortunatamente per lui, né una malattia né una sentenza giudiziaria gli hanno tolto di mezzo l’ingombrante “cofondatore” del Pdl e la sua sistematica opera di erosione dall’interno, di moltiplicazione di distinguo e affondi critici, si è dimostrata indigeribile per i vertici del centrodestra. Si è così giunti all’esplosiva resa dei conti pubblica dell’aprile 2010, probabilmente dettata da opposte sbavature caratteriali, e la corda si è spezzata. A questo punto, pronosticare dove approderà Fini è quasi impossibile, e a complicare lo scenario c’è l’ipertrofica ambizione dell’uomo, che difficilmente gli farà accettare ruoli di secondo piano. Un fallimento di Fli avrebbe, per lui, esiti catastrofici, forse anche sul piano psicologico. Quindi credo che, finché potrà, insisterà nel tentativo di tenere in vita questa sua creatura.

Queste amministrative al momento hanno consegnato due sconfitti: Fini e Berlusconi, ed abbiamo visto in aumento i movimenti di Grillo e Di Pietro. Cosa sta cambiando nella società italiana e/o nella visione della politica?
Sta cambiando, in parte, la direzione della persistente ondata di protesta nei confronti della classe politica e del sistema da essa forgiato e diretto. Nel 1993-94, Forza Italia e il Msi-Alleanza nazionale si sono presentati come incarnazioni del Nuovo, espressioni della “sana” società civile insorta contro la corruzione, il piccolo cabotaggio clientelare, l’inefficienza, le ipocrisie del sottogoverno. Ma con il tempo hanno fatto proprie tutte o quasi le pratiche che avevano denunciato come inaccettabili e degradanti. Per dirla alla Berlusconi, hanno semplicemente cambiato il programma nel cartellone del “teatrino della politica”. Era inevitabile che i temi rivendicativi e populisti messi in circuiti ma sostanzialmente elusi trovassero altre, diverse, più dinamiche e meno compromesse espressioni: i movimenti di Grillo e di Di Pietro esemplificano il processo, di cui anche Sel di Vendola è componente attiva – anche se, nel caso dell’Italia dei Valori, contraddizioni e incoerenze hanno iniziato a farsi evidenti, e il successo napoletano di De Magistris, “frondista” per eccellenza, non pare destinato ad alleviare i conflitti interni, ma semmai ad aggravarli.

Mi pare imprudente sostenere che Fini sia "sconfitto" in queste amministrative. Il Pdl sta andando verso una fase difficilissima e delicata. Fini l'aveva immaginato e proprio perciò ha creato Fli: per poter cavalcare la crisi del Pdl e non rimanervi coinvolto. E' impossibile dire oggi se la sua operazione sia di successo o fallimentare. Forse potremo tra un anno. In questo momento la sua sconfitta è apparente, tra pochi mesi potrebbe tramutarsi in successo. Un fatto però è certo: i successi di Fini non sono i successi degli Italiani.

domenica 15 maggio 2011

Il "boia di Sobibor" e le prove schiaccianti.

Più volte, nel passato, mi sono occupato del gravissimo problema delle c.d. "leggi liberticide", cioè di quelle fitta rete di norme penali, sviluppatasi in quasi tutti gli Stati europei (e non solo europei) negli ultimi trent'anni, che persegue l'obiettivo di punire penalmente la semplice manifestazione di pensieri non conformi a standard prefissati.
In quasi tutti gli Stati (e comunque in tutti quelli europei, non appena le singole legislazioni si saranno uniformate come impone l'U.E.) tra i temi-tabù compare la storia del Nazionalsocialismo, della II Guerra Mondiale e dell'Olocausto: temi su cui, di conseguenza, è illecito svolgere ricerca storica.
E' un argomento su cui tornerò presto, che presenta però il pregio di essere abbastanza noto anche se i media si guardano bene dal dare notizia dell'interminabile elenco di condanne inflitte a storici e ricercatori: ad esempio, proprio pochi giorni fa è stata la volta, davanti al Tribunale di Regensburg, di Gerd  Walther, che si era occupato dell'Olocausto da un punto di vista medico-legale.
Meno noti invece (anzi totalmente sconosciuti all'opinione pubblica) sono gli sconcertanti meccanismi logico-giuridici adottati dei tribunali per affermare la responsabilità degli appartenenti all'esercito tedesco imputati di avere partecipato alle attività di sterminio degli ebrei. L'ultima sentenza, pronunciata dal Tribunale di Monaco di Baviera l'11 maggio, riguarda il caso di John Demjanjuk, e va ben oltre l'aberrante assunto "non poteva non sapere" per arrivare allo sconvolgente "se c'era è responsabile di quel che accadeva".
Così il sito di informazione ilPost commenta la notizia:

John Demjanjuk è stato condannato

Il 91enne ucraino è stato dichiarato colpevole per aver partecipato all'omicidio di circa 28.000 prigionieri di un lager nazista
Dopo un processo durato diciotto mesi, John Demjanjuk è stato dichiarato colpevole a Monaco di Baviera, per aver collaborato all’uccisione di circa 28.000 persone nel periodo in cui è stato una guardia reclutata dalle SS nel campo di concentramento di Sobibor, in Polonia. La pena è di cinque anni di carcere (l’accusa ne aveva richiesti sei) e la difesa ha già annunciato che ricorrerà in appello.
Demjanjuk non era accusato di alcun crimine specifico e non ci sono testimoni del fatto che abbia mai ucciso nessuno. Ma l’argomento dell’accusa era che, una volta dimostrata la sua presenza a Sobibor, la sua collaborazione agli omicidi era da ritenersi inevitabile. È la prima volta che un argomento di questo tipo viene usato in un tribunale tedesco, e un legale delle famiglie delle vittime di Sobibor aveva dichiarato prima del verdetto all’agenzia Associated Press:
«Se viene confermata la tesi dell’accusa, e se viene emesso un verdetto per concorso in omicidio perché una persona era guardia in un campo dove molte altre sono state uccise, potrebbe essere l’inizio di una nuova ondata di molti altri procedimenti simili».
Demjanjuk aveva assistito alle fasi finali del processo disteso su un letto e assistito da un interprete. Quando gli è stato chiesto se intendeva rilasciare una dichiarazione finale, ha risposto solamente con un “no”. L’uomo ha sempre negato di essere stato una guardia in un campo di concentramento e ha detto di aver passato gran parte della guerra come prigioniero di guerra dei tedeschi.

sabato 14 maggio 2011

Le riforme dell'U.E. e le scommesse che si accettano.

Quando, in Italia, si discute di regolamentazione dell'attività dei partiti, oppure di legge elettorale, oppure di immunità per le maggiori cariche dello Stato, sembra che caschi il mondo. La più piccola modifica è, sempre, oggetto di polemiche infinite ed è invariabilmente presentata come attentato alla Costituzione, alla democrazia, alla libertà… Perché, si sa, su questi temi occorre una condivisione ampia e trasversale… tutte le componenti sociali devono essere coinvolte nel dibattito… ecc. ecc.
Ma quanti sanno che, proprio in questi giorni, l'U.E. sta mettendo mano ad una riforma sostanziale dei partiti politici europei, del sistema elettorale per il Parlamento Europeo e delle immunità degli eurodeputati?
Nessuno. Nessun giornalista ne parla, nessun grillo di turno grida allo scandalo. Eppure gli organi dell'Unione - l'abbiamo detto un'infinità di volte - hanno molto più potere di quelli nazionali… Macchè: la congiura del silenzio non conosce eccezioni!
Queste riforme in cantiere produrranno i primi frutti alla sessione plenaria del Parlamento Europeo di giugno.
Si accettano scommesse sul fatto che a giugno i media italiani non ne parleranno, oppure lo faranno in modo così confuso e approssimativo (quando non scorrettamente partigiano) che le notizie risulteranno incomprensibili.

mercoledì 11 maggio 2011

Luca Rimbotti recensisce l'ultimo libro di Giuseppe Giaccio,...

... un libro che, ahimè, dice molte cose vere. Anche per chi non condivide neanche un po' le idee di Giaccio.

DALLA DESTRA AL NULLA DI DESTRA

La parabola della “destra” italiana, dal neofascismo al liberalismo, dalla “fogna” all’auto-blu, è stata parecchie volte ripercorsa negli ultimi anni: l’interesse per questo soggetto alieno, un giorno improvvisamente balzato al centro della scena con pretese di leadership, ha prodotto buoni fatturati di vendita per ogni sorta di ricostruzioni giornalistiche, parastoriche, pseudoscientifiche. Tra il semiserio e l’improbabile, ma rare volte anche con dosi di buona oggettività, le idee, la psiche, gli immaginari di chi, infame fascista ancora negli anni Ottanta, da un giorno all’altro si è trovato ministro o sottosegretario, hanno costituito un materiale andato a ruba negli spacci della divulgazione democratica. C’era da aspettarselo. Il servo chiamato alla tavola del padrone è un antico canovaccio della commedia dell’arte, diverte il popolo. Chi fossero e da quali anfratti fossero emersi quei miracolati incuriosiva. Poche le analisi al dettaglio, diciamolo. Molti i rimescolamenti di carte all’ingrosso. Una sola cosa chiarissima: i missini al vertice del loro partito durante il Kampfzeit ante-1994 erano atlantisti, filosionisti, borghesi, amici dei capitalisti e dei poteri forti; i post-missini oggi al vertice dello Stato sono rimasti atlantisti, filosionisti, borghesi, amici dei capitalisti e dei poteri forti. Nessun “tradimento”, dunque, ma una bella linea retta. Il “tradimento” non è dei cosiddetti “finioti” e neppure dei colonnelli divenuti “berluscones”, è semmai quello di coloro che, partiti da posizioni di radicale contestazione del sistema almirantiano degli anni Settanta, quando basculavano fra Rauti, Evola e de Benoist, oggi hanno scantonato fino a diventare come nulla fosse Kronjuristen di Fini oppure pilastri del potere dell’uomo di Arcore. Ottimi puntelli, insomma, per un modo di essere a “destra” che una volta veniva aborrito con altissime maledizioni. Per non far nomi, un Campi oppure un Alemanno, con tutta la legione degli imitatori.
Esiste oggi un raro documento interno a quella che una volta venne definita la “Nuova Destra” e vergato da uno degli ancora più rari esempi di mancato imbrancamento nella mandria liberaldemocratica, che ricostruisce bene i meccanismi che hanno reso possibile il passaggio dal Movimento Sociale di strada e di lotta alla “destra” di palazzo e di governo. Leggendo Le metamorfosi della destra. Dal Msi a Futuro e Libertà: come è cambiata la destra in Italia di Giuseppe Giaccio (pubblicato da Caravaggio Editore di Vasto), si imparano alcune cose. Innanzi tutto, che in quella storica virata agirono meccanismi mentali, certo non ideologici. Pulsioni d’occasione, certo non culture politiche. Tattiche di svelta aderenza al kairos (l’attimo propizio, dicevano gli antichi; noi potremmo dire: la botta di fortuna) piuttosto che di meditata sintesi politica. Bravate nell’azzeccare la scelta di vita, nessun pensiero epocale, molta incoerenza ed una subcultura imparaticcia. Ad epitome di tale attitudine a rivendere banalità col tono dell’ultima frontiera del sapere politico, Giaccio colloca non a torto un autentico monumento di insipienza e di pochezza idealtipica, quell’esilarante Mein Kampf di Gianfranco Fini che or non è molto è stato pubblicato col minaccioso titolo Il futuro della libertà. Un solido testo che, per spessore speculativo e profondità d’analisi, Giaccio non esita a paragonare alla rubrica che una volta Donna Letizia teneva sui rotocalchi popolari, distribuendo consigli e precetti ai giovani a modo: «Il suo appiattimento sull’esistente è totale», commenta Giaccio parlando del presidente della Camera bassa, «come dimostra Il futuro della libertà, dove, all’interno della cornice letteraria di un discorso rivolto ai giovani, troviamo elencati e magnificati tutti i luoghi comuni indispensabili per entrare nell’establishment dalla porta principale». Gli slogan a vanvera – del tipo della «libertà nuova, senza frontiere e senza barriere, la libertà di costruire in autonomia…» - le parole che non costano nulla, i rosari perbenisti: questo il catalogo che i finiani offrono come dono avvelenato a quegli incauti giovani che avessero l’imprudenza di stare ad ascoltarli. Con, in più, la grande mossa fraudolenta, con la quale si conta di accalappiare qualche sprovveduto di passaggio. Il gioco di prestigio nel creare la formula “destra nuova”, il colpo da maestro dei finiani, per darsi un tono e un blasone ideologico, darebbe ad intendere una diretta parentela con la cosiddetta “Nuova Destra” gestita in Italia per qualche decennio da Marco Tarchi: solo che questa l’eresia la viveva davvero, e pestava duro – e ancora pesta - sul tasto anti-americano, anti-capitalista, anti-utilitarista, neo-ecologista, solidarista, etc.; mentre la “novità” della “destra” alla Campi-Fini si segnala per decrepitezza, essendo in tutto simile alla ricetta almirantiana di compiacere il padronato al potere ingurgitandone tutte le pietanze liberal-occidentaliste, e senza battere ciglio. Giaccio precisa: «la lettura “continuista” delle esperienze della Nuova destra e della Destra nuova, secondo cui il “seme innovativo” della Nd “avrebbe fecondato la nuova cultura politica di Fini”, è destituita di ogni fondamento, come ben sa chi conosce i testi e possiede anche solo un briciolo di onestà intellettuale».
Il solo fatto, aggiungiamo noi, di parlare di “cultura politica” a proposito dei finiani è già un azzardo dialettico: i riferimenti fatti dagli scarni pensatoi di Futuro e Libertà (dalla fondazione Farefuturo ai blogger “futuristi”, fino a certi recentissimi pasticci “fasciocomunisti” allestiti in provincia) sono tutti un programma: sempre ed in ogni caso si va nella direzione voluta dai padroni del pensiero unico e, senza deviare di un millimetro dai suoi interessi, si ammassano brandelli di Scruton e Popper, Kant e Dahrendorf, si butta là una citazione da Marinetti ma subito ci si precipita a recitare l’orazione atlantista, quella cosmopolita, mondialista, anti-nazionale, antieuropeista, etnopluralista,  sionista, magari strizzando l’occhio libertario alla lobby gay, così, per andazzo, per stare sull’onda: da tali pertugi si effettua l’uscita dal famoso “tunnel del fascismo”…Di fatto si recita l’antico copione almirantiano: ossequiare comunque il potere liberale e quello liberal, poi si vedrà. Lo direste un programma di “destra”? O invece qualcosa di “postfascista”? Un’occasione perduta? Un teatro dell’assurdo? Il libro di Giaccio – che ancora oggi è tra i più cocciuti collaboratori delle riviste tarchiane “Trasgressioni” e “Diorama” - va letto per schiarirsi le idee, per verificare i limiti di una classe politica che, lungi dall’avere qualcosa di nuovo, si presenta coi vecchi vizi congeniti ad un certo modo degenere di vivere all’italiana la politica. Giaccio, in poche ma ben condite pagine, parte da lontano, dall’8 settembre, dalle spaccature ideologiche che oggi si ricreano nell’odio compulsivo verso il tiranno mediatico, ripercorre i traumi del crollo del Muro e del polverone di Mani pulite, quelli che hanno accompagnato la “crescita della società civile” a suon di mutazionismi politici eterodiretti dai soliti noti. Critica l’universalismo cosmopolita cui tutti – di “destra”, di “centro”, di “sinistra” – si adeguano; analizza le sindromi della “destra” nostrana e di tutto il sistema della prima e seconda Repubblica, incentrato sull’accettazione passiva del modello liberaldemocratico occidentale. Irride il “patriottismo costituzionale” – versione coloniale di quello americano – e poi chiama a raccolta quei pochi – un Tarchi, uno Zolo - che mettono in guardia contro gli abbagli illuministici della modernità. Fa un quadro preciso di quel disastro politico che è oggi diventata la “destra” italiana. La sua è una parola di rilievo, poiché proviene da uno dei pochi osservatori radicalmente anti-sistema che ancora esistono, sia pure minoritari, spinti nell’angolo, ignorati. Da erede del progetto “Nuova destra”, quello vero, che avrebbe potuto rovesciare la politica italiana se solo avesse avuto una sponda politica, Giaccio non demolisce soltanto, ma ricorda quale era e avrebbe dovuto essere l’alternativa vera: «formulare un europeismo non autoritario e disposto ad allearsi col terzo mondo, favorire una presa di coscienza antioccidentale in quei settori della società civile che hanno manifestato un senso di profondo disagio verso il liberalcapitalismo». Giaccio è un osservatore politico con venature di poeta. Qualche anno fa ha scritto racconti di visione e di attesa, di panteismo e di infinito, di silenzio e di ascolto (Storie francescane, edizioni Controcorrente). Una specie di apologo pagano e nietzscheano sulle forze elementari della vita, ma viste sotto immagine cristiana. Che c’entra con la “destra”? C’entra. Era per dire che, senza una concezione “apocalittica”, senza un’ideologia della rivolta tellurica, radicale, ultimativa, senza raffinatezza di sensi e fame di abissi, la “destra” e la politica in genere rimangono al livello di una conversazione fra Fabio Granata e Andrea Camilleri.
                                                                                Luca Leonello Rimbotti   

sabato 7 maggio 2011

Ancora polemiche su Giovanni Gentile. L'ANPI: "rimuovete la salma!"

Sono anziano quanto basta per avere ancora studiato su testi scolastici che raccontavano la storia della filosofia come un disordinato elenco di opinioni casuali. Ora molte cose sono cambiate e gli studenti (e gli studiosi) hanno a disposizione analisi come quelle di Costanzo Preve, ed altri, che illustrano magistralmente l'evoluzione delle scuole di pensiero, i loro sviluppi, i loro percorsi.
I filosofi cessano di essere eccentrici estranei, li si può capire e conoscere, e ci si può riconoscere.
Queste analisi mi confortano nel mio antico convincimento che Giovanni Gentile sia stato l'ultimo epigono (in attesa del prossimo venturo) di una visione della realtà che certamente non può piacere a chi pretende una costruzione scientifica del mondo basata sulla sua matematizzazione sperimentale (il cui simbolo è Galileo) né a chi vorrebbe espellere dal mondo Dio e la sua oggettività (e qui il simbolo è Kant). Una visione della realtà molto ragionevole e molto "europea", realistica e non ideologizzata, che nel tempo riaffiora carsicamente: Platone, gli umanisti italiani, Hegel, e da ultimo - appunto - Gentile.
Ma ogni concezione della realtà è anche foriera di ben precise conseguenze pratiche e "politiche".
E quando si parla di politica non si va per il sottile.
Ecco perché - posto che so molto bene che oggi hanno vinto Galileo e Kant, e Gentile ha perso - la notizia che segue non mi stupisce neanche un po'.       

di Francesco Perfetti su “Il Tempo” del 2 maggio 2011 (da Storia in Rete)
Quello che è successo a Firenze, nei giorni scorsi, a ridosso delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, è la dimostrazione che – malgrado gli appelli del Capo dello Stato a cercare «condivisioni» sul nostro passato – il tessuto morale del paese è profondamente lacerato. I fatti sono – non c’è parola migliore per descriverli – allucinanti. E avrebbero dovuto sollevare un’ondata di sdegno in tutta Italia. Eccoli. La sezione fiorentina dell’Anpi, con il plauso e l’adesione di personalità politiche locali di sinistra e centro-sinistra, ha chiesto la rimozione della salma del filosofo Giovanni Gentile dalla Basilica di Santa Croce a Firenze in quanto (è la motivazione testuale) «appoggiò il regime mussoliniano».
E, come conseguenza, ne ha proposto la traslazione in un cimitero comune. Non se ne farà, probabilmente, nulla, anche perché il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ha definito l’iniziativa una inutile «provocazione» smentendo in tal modo il capogruppo del Pd che aveva definito la proposta «molto solida» e degna di essere «presa immediatamente in considerazione». Tuttavia il problema non è questo, non è nella fattibilità o meno di una proposta dissennata. Il problema sta nel fatto stesso che – ad oltre mezzo secolo dai fatti luttuosi della “guerra civile” – possa scaturire una proposta del genere, possa venire partorita cioè l’idea, balzana e priva di ogni base giuridica, che sia possibile rimuovere una salma, per le idee politiche del defunto, e spostarla da un cimitero, ritenuto evidentemente di serie A e con un grande valore simbolico, a un altro cimitero, considerato di serie B e quindi adatto a un nemico. Dietro questa proposta balorda – a meno che non ci sia un banale episodio di bassa lotta politica interna al centro-sinistra per mettere in difficoltà l’attuale sindaco di Firenze – c’è, con molta probabilità e assai più verosimilmente, il desiderio, fors’anche inconsapevole ma non per ciò meno pericoloso, di rifiutarsi di voltare le pagine del grande libro della storia e di voler mantenere vivo un clima di permanente «guerra civile strisciante».
Non è un caso, infatti, che, sui muri di Firenze, sia apparsa la scritta: «Gentile fascista eri il primo della lista, morte a te e a chi ti difende». Una scritta che evoca scenari sanguinosi sui quali, evidentemente, da certe parti non è calato il sipario. E che,anzi, taluni ambienti della sinistra vorrebbero riproporre trasformando l’antifascismo in antiberlusconismo. L’assassinio del filosofo avvenne il 15 aprile 1944 per mano di un commando di partigiani comunisti. Fu una pagina nera nella storia della Resistenza, un episodio che ancora imbarazza la Sinistra. Fu un assassinio privo di giustificazioni militari o politiche dal momento che Gentile non ricopriva cariche pubbliche, se non culturali, e, conosciuto per mitezza e disinteresse, si era pronunciato e adoperato per la riconciliazione degli italiani. Per molti, anche antifascisti illustri, la notizia del barbaro assassinio del filosofo fu un trauma. Indro Montanelli, che all’epoca era prigioniero della Gestapo a Gallarate, avrebbe riferito le sue reazioni con parole emblematiche: «Mi ci trovavo da molti mesi, e sempre avevo creduto di trovarmici dalla parte giusta: quella dei resistenti. Per la prima volta dubitai di essere dalla parte sbagliata: quella dei sicari».
In realtà, l’assassinio di Giovanni Gentile ebbe un significato politico e un significato filosofico. Dal punto di vista politico fu l’esito di una strategia maturata ai vertici del Pci e volta ad affermare il primato comunista alla guida del Cln mettendo in difficoltà la componente costituita dagli intellettuali allievi del pensatore. Dal punto di vista filosofico, rappresentò la sconfitta dell’egemonia culturale dell’”attualismo” e la sua sostituzione con quella del “gramscismo”. In altre parole, l’assassinio di Gentile rientrò in una strategia volta a consolidare la guida comunista della Resistenza e, al tempo stesso, a gettare le basi dell’egemonia culturale e politica del “gramsci-azionismo” nell’Italia liberata. Il che, sia detto per inciso, spiega il motivo per il quale attorno al nome del filosofo andò sviluppandosi una vera e propria damnatio memoriae che, periodicamente, torna a manifestarsi ogni volta che se ne presenti l’occasione: per l’apposizione di una targa o per l’emanazione di un francobollo ovvero per la proposta di intitolargli una via o una strada in quella Firenze al cui sviluppo intellettuale, ma anche economico, egli contribuì non poco. Tuttavia non era mai stato toccato questo limite: la voglia di profanare una salma in nome dell’antifascismo. Montanelli avrebbe parlato, probabilmente, del ritorno dei sicari.

giovedì 5 maggio 2011

"Io difendo il diritto divino della nazione irlandese all'indipendenza sovrana, e credo in essa."

Trent'anni fa, il 5 maggio 1981, ci ha preceduti Bobby Sands, patriota cattolico e martire europeo.
Non mi pento di ciò che ho fatto, non rinnego nulla di ciò che ho detto: rifarei ogni cosa per rompere il giogo della povertà e dello sfruttamento. Il coraggio non sta nel saper preservare la propria vita, cedendo a ricatti o false promesse. Il coraggio sta nella forza di guardare negli occhi un uomo di qualsiasi levatura sia. E ribadire sempre il grido di Libertà e Verità”.

domenica 1 maggio 2011

Parla Ida Magli, durissima con Ue e Bce

'Il mio schiaffo all'Europa'

L'antropologa: l'Italia dovrebbe per prima cosa sospendere il trattato di Schengen e tornare a battere moneta. 
di Paola Cortese

Ben tre paesi, Grecia, Irlanda e Portogallo, a rischio di bancarotta. E un’Europa matrigna che con una mano li afferra, concedendogli prestiti milionari, e con l’altra li spinge giù, impoverendo i loro cittadini. E’ l’analisi controcorrente di Ida Magli, antropologa autrice del pamphlet “La dittatura europea”, Bur.

Che traccia l’immagine impietosa di un’ Europa grigia, governata dai banchieri, lontana dai popoli. A lei chiediamo: come può accadere che uno Stato fallisca?
“Uno Stato che batte la propria moneta non fallisce mai. Ma nell’ Unione europea chi batte moneta è la Bce, la Banca centrale. L’euro non ha uno Stato dietro: è una moneta falsa. Così come è di carta il Parlamento europeo, dove si parlano 27 lingue e non si fanno le leggi. Se gli Stati non possono battere moneta non possono finanziarsi. E i banchieri se li giocano a carte, speculano sui loro debiti. Per poi prestargli aiuti al 6,2% che è un tasso insostenibile per paesi come la Grecia, che ora corre un altissimo rischio: è solo questione di tempo”.

Chi comanda oggi in Europa?“Gli interessi dei grandi banchieri che sono dietro alla Bce. Un enorme conflitto di interessi, perché si tratta di privati cittadini dalle ricchezze inestimabili, le regine d’Inghilterra e d’Olanda, i Rothschild, i Rockfeller. Dietro c’è un disegno di globalizzazione, di governo finanziario del mondo. Sennò perché appiattire le tradizioni culturali dei popoli europei, fatte di intelligenze uniche? Si vuole un mondo tutto uguale dove i popoli non contino nulla. L’Ue è stata imposta dall’alto, in Italia non è mai stato fatto un referendum per sapere cosa ne pensano i cittadini”.

Ma gli europeisti sostengono che l’euro ci salvi dall’inflazione.“E’ un inganno. Con l’euro abbiamo avuto l’inflazione al 100%, perché abbiamo dimezzato il valore del denaro. E’ un po’ quello che voleva fare Craxi con la lira pesante. Ma l’inflazione reale non avrebbe mai raggiunto quei livelli, sarebbe arrivata al massimo all’8%. E soprattutto abbiamo impoverito la nostra economia. Ci hanno imposto le quote latte, quando il latte era una nostra ricchezza peculiare. Ci hanno fatto distruggere le arance, uccidere le nostre mucche. In nome dell’Europa sono state fatte scelte insensate”.

Cosa dovrebbe fare l’Italia secondo lei?“Per prima cosa sospendere il trattato di Schengen e tornare a battere moneta. Ci sono altri esempi: l’Inghilterra è fuori e sta benissimo. L’ Italia sta penalizzando se stessa per mantenere il debito nei parametri europei: servono enormi risparmi e mancano i soldi per la ricerca e la cultura. Ma la forza dell’Italia è la produzione di pensiero, arte, poesia. E’ questa la nostra vera ricchezza, la vita biologica conta meno della cultura per la specie umana”.

Negli ultimi giorni l’Europa sembra più fragile: i finlandesi hanno eletto un partito di estrema destra che si rifiuta di pagare il debito del Portogallo.“Sono forze centrifughe che si stanno manifestando negli ultimi tempi. A rompere il giocattolo è stato Sarkozy, quando ha mandato gli aerei a bombardare la Libia. Questo ha aperto gli occhi a tutti: non esiste un’ unione politica. Ma non basta. Resta il sistema di potere finanziario costituito dalla Banca centrale, un immenso impero: milioni di persone con ricchissimi stipendi sui quali nessuno può fare controlli. Ci vorrebbero dei governanti veramente decisi a cambiare. Ma anche il ministro Maroni non ha dato nessun seguito alle sue minacce di uscire da Schengen”.

Da Televideo.Rai.it.

Il Trattato di Lisbona: una truffa coperta dalla disinformazione

Alcuni giorni or sono il quotidiano Rinascita ha ripubblicato con grande risalto (dedicando addirittura le due pagine centrali) un mio articolo di qualche tempo fa.
E' uno scritto che meriterebbe più di un aggiornamento, e anche di essere qua e là emendato di qualche imprecisione, però la nuova pubblicazione da parte di una testata di diffusione nazionale mi induce a pensare che presenti ancora un interesse attuale.
Ve lo propongo, ricordando, a chi desideri un'esposizione più dettagliata seppure sempre di taglio assolutamente divulgativo, la pagina U.E. e dintorni su questo blog.

Il Trattato di Lisbona: una truffa coperta dalla disinformazione.
Il 2 ottobre 2009, in un’umida e piovosa giornata d’inizio autunno, a Dublino è accaduto un evento epocale, paragonabile solo ai grandi fatti storici del passato che hanno segnato il cammino dell’umanità. Eppure questo evento è stato circondato dalla più assoluta disinformazione, i media ne hanno parlato distrattamente senza fornire ai cittadini alcun elemento per poter capire che cosa è realmente capitato.
Quel giorno, con l’esito favorevole del referendum irlandese, è caduto l’ultimo ostacolo che si frapponeva alla piena operatività del Trattato di Lisbona, cioè il documento che sancisce definitivamente la soppressione della sovranità dei singoli Stati nazionali europei e che segna la nascita di un unico Stato per tutto il continente europeo: lo Stato Unione Europea.    
Fin dalla sua origine, l’U.E. è stata pensata per essere un organismo di tipo statuale: uno Stato a tutti gli effetti, destinato a sostituirsi ai precedenti Stati nazionali. E di questo obiettivo non è mai stato fatto mistero, benchè esso sia ignoto alla gran parte dell’opinione pubblica. Uno dei “padri fondatori” dell’Europa unita, Altiero Spinelli, espone a chiare lettere questo concetto nel celebre Manifesto di Ventotene, scritto mentre era al confino nell’omonima isola, e la dottrina pubblicistica ha sempre definito l’U.E. come “un organismo autonomo ed indipendente”. cioè la medesima definizione utilizzata per gli Stati!     
Questa nozione è pacifica, e lo è “da sempre”.
Un episodio dal quale è emerso in modo eclatante il carattere statuale dell’U.E. è stata la decisione di dotare la stessa di una Costituzione, per la redazione della quale fu creata una Commissione (assemblea costituente) presieduta da Giscard d’Estaing e Giuliano Amato. La Costituzione fu poi affossata, nel 2005, dai referendum in Francia e nei Paesi Bassi, ma – indipendentemente da tale fallimento - il significato rimane: gli Stati si dotano di una Costituzione (tant’è vero che può dirsi che non esiste Stato senza Costituzione), mentre gli enti sovranazionali, o comunque non statuali, non hanno Costituzione, tutt’al più hanno una statuto o un atto costitutivo!
Avere scritto la Costituzione dell’U.E. ha significato affermare il suo carattere di Stato.
Ma rinunciare agli Stati nazionali in favore di un nuovo unico Stato europeo è una scelta di enorme importanza per il presente e per il futuro dell’Europa, una scelta che dovrebbe essere accuratamente studiata, discussa, condivisa, ed altrettanto importante sarebbe conoscere ed approvare quel “nuovo” che andrà a sostituire il “vecchio”, cioè la struttura dell’U.E., i suoi organi, i suoi poteri, il bilanciamento tra essi, i fini che essa si pone, ecc. Sappiamo invece che nulla di tutto ciò è accaduto: nessuno ha chiesto ai popoli del Vecchio Continente, ad esempio, quali principi e quale ideologia dovranno reggere il nuovo Stato europeo, oppure come questo dovrà collocarsi nello scacchiere geopolitico, oppure ancora se esso dovrà privilegiare l’efficientismo liberal-capitalistico a discapito dei diritti sociali o viceversa, e così via. Parimenti, pochissimi cittadini europei (praticamente nessuno) sanno come è strutturata il meccanismo di formazione delle decisioni all’interno dell’U.E., ben pochi sanno che il Parlamento Europeo (unico organismo dell’Unione eletto direttamente da popolo) è pressochè privo di potere e che la potestà legislativa è concentrata nelle mani di organi (il Consiglio e la Commissione) sforniti di legittimazione popolare, il cui operato è insindacabile e che sono privi di qualsiasi responsabilità. E naturalmente nessuno conosce i nomi degli oscuri burocrati che costituiscono i gruppi di lavoro della Commissione, i quali scrivono le future leggi dell’Europa, oppure i nomi dei giudici della Corte di Giustizia, il cui potere è ormai sconfinato.
Insomma, tutto viene calato dall’alto, deciso ed imposto ai popoli europei prescindendo dalla loro volontà, dalla loro approvazione e persino dalla loro consapevolezza.
Questo percorso di soppressione degli Stati nazionali in favore di un unico Stato europeo si è completato il 2 ottobre 2009. Proprio nel momento in cui i nostri politicanti si riempiono la bocca parlando di costituzione repubblicana e di festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia, lo Stato Repubblica Italiana (così come gli altri Stati nazionali europei) è cessato, tutti i poteri e le funzioni che caratterizzano la sovranità sono stati trasferiti all’U.E.         
 E’ quindi indispensabile conoscere il contenuto del Trattato di Lisbona poichè esso fissa i caratteri del nuovo Stato del quale, da quella data, tutti siamo cittadini (o, se preferite, sudditi). Però va detto che il testo del Trattato (che sostanzialmente recepisce pressochè tutto il contenuto della Costituzione bocciata dai referendum in Francia e nei Paesi Bassi) è inverosimilmente lungo (centinaia di pagine) e complicato, praticamente ogni riga costituisce un rinvio ad altri documenti e ad altri testi legislativi: un testo cioè illeggibile ed incomprensibile. E’ bene chiarire che il carattere volutamente illeggibile del testo del Trattato è stato ufficialmente e pubblicamente dichiarato da Giuliano Amato durante un discorso al Centro per la Riforma Europea a Londra il 12 luglio 2007. E’ certo dunque che, con il loro consueto modus operandi arrogante ed illiberale, i “burattinai” dell’U.E. hanno volutamente creato un testo inaccessibile per impedire all’opinione pubblica di sapere che cosa stesse accadendo, e quindi di poter decidere il proprio destino.
Non a caso, quando il Parlamento italiano ha ratificato il Trattato (8 agosto 2008), qualcuno ha commentato: se lo conoscessero, non lo voterebbero! Ma il voto parlamentare è stato favorevole all’unanimità, nessun contrario, nessun astenuto. Prima del voto, nessun dibattito, nessuna prima serata televisiva. Il voto con il quale veniva messo in liquidazione lo Stato italiano è passato quasi inosservato.
Questa difficoltà di lettura del testo del Trattato è, evidentemente, anche una difficoltà di esposizione, ed infatti dal 2007 ad oggi si è scritto tutto ed il contrario di tutto sul Trattato di Lisbona, vi sono stati visti i contenuti più disparati e contrastanti. Ancora recentemente, ad esempio, dopo il referendum irlandese, si è letto un comunicato della Commissione degli Episcopati della Comunità Europea che loda l’esito del referendum affermando che il Trattato conterrebbe dei principi che, in realtà, gli sono totalmente estranei! Difficile dire se quei Vescovi fossero solo ignoranti o non piuttosto in mala fede...       
Proviamo dunque e cimentarci nella non facile impresa di delineare il punti salienti dal Trattato, e, quindi, i tratti fondamentali dello Stato U.E. del quale, oggi, tutti facciamo parte.
Per quanto riguarda gli organi e la ripartizione del poteri, nulla muta rispetto ad oggi: i poteri legislativo ed esecutivo rimarranno concentrati nelle mani di organi privi di legittimazione popolare. Il potere giudiziario sarà assegnato alla Corte di Giustizia, i cui giudici, parimenti, anch’essi non sono eletti dal popolo. Ne emerge l’immagine di uno Stato rigidamente oligarchico, gestito da una minuscola elite che non risponde ad alcuno del suo operato, mentre i cittadini europei continueranno ad eleggere un Parlamento le cui funzioni, rispetto alle attuali, muteranno assai poco ed in misura non significativa.
Lo Stato sarà rappresentato verso l’esterno da un Presidente che – inutile dirlo – non sarà eletto dai cittadini. 
Saranno istituita una Procura europea ed una Polizia europea (Europolice) ed il nuovo Stato avrà una sua legislazione penale. Sicuramente proseguirà la promulgazione, già ampiamente avviata, di leggi liberticide che – come già oggi – tenderanno a controllare e ad omologare le opinioni e le idee.
La politica economica sarà retta dal principio della “libera concorrenza senza distorsioni”. E’ l’applicazione della dottrina del liberal-capitalismo, che esclude la possibilità di interventi correttivi degli organi pubblici e che arriva al punto di sancire il divieto di sciopero se ostacola (testualmente) “il libero movimento dei servizi”: formula vaghissima nella quale può rientrare di tutto! Questo divieto fa il paio con una sorprendente norma che, in caso di sommosse o insurrezioni, legittima da parte delle forze dell’ordine (e dell’esercito) l’uccisione dei partecipanti! Una norma decisamente ancora da indagare a fondo...
Quel che è certo, è che sicuramente è lecito attendersi una normativa sociale e di tutela dei lavoratori assai meno incisiva di quella attualmente in vigore in Italia. E’ prevedibile la liberalizzazione dei salari.
Da un punto di vista ideologico, basti ricordare che il Trattato dà forza giuridica obbligatoria alla Carta di Nizza del 2000, cioè il documento, aspramente criticato da Giovanni Paolo II, che non considera la sessualità un dato di natura ma una scelta culturale soggettiva e che dissocia il concetto di famiglia da quello di matrimonio tra uomo e donna, aprendo la strada alle unioni omosessuali con pari diritti (compresa l’adozione di bambini) rispetto a quelle tradizionali. Nulla muta rispetto ai tradizionali orientamenti dell’U.E. favorevoli all’aborto ed all’eutanasia.
La politica estera sarà affidata ad un “Alto Rappresentante per gli affari esteri”, e l’Unione potrà decidere interventi militari, non solo con carattere difensivo ma anche offensivo. Gli ex Stati nazionali perderanno quindi anche la loro indipendenza militare. E nulla permette di escludere la leva obbligatorie europea. E’, questo, un altro capitolo semplicemente sconcertante!
In materia di immigrazione, l’Unione avrà frontiere esterne comuni e deciderà chi potrà entrare e chi no, senza possibilità per i cittadini di fare sentire la loro opinione.
Credo che queste poche righe, nella quali mi sono sforzato di essere il più oggettivo possibile, siano sufficienti per delineare lo scenario. E' questa l'Europa dei banchieri e dei mercanti. E' l'Europa, senza etica e senza morale, utile al grande capitale che non vuole vincoli.
Ce l'hanno costruita addosso. E noi non ce ne siamo accorti.