lunedì 30 aprile 2012

La distanza tra il popolo e la politica.

L'intervento del Presidente della Repubblica, in occasione delle celebrazioni per il 25 Aprile, ha suscitato più di un commento.
Propongo le riflessioni di un osservatore che non è nè un politico di mestiere, nè un giornalista professionista, ma che mi sembrano molto più centrate di quelle di tanti paludati (e anacronistici) maitre à penser.
Di Gabriele Gruppo, dal sito wordpress.thule-italia.net:


” … consegnare le chiavi del Paese al demagogo di turno”.
Questo sarebbe, secondo il Presidente della Repubblica Napolitano, il rischio che sta correndo l’Italia, nella persistente difficile congiuntura che la vede protagonista, in negativo, delle vicende d’Europa.
La mummia del Quirinale comprende che la situazione è grave, e sceglie l’ormai appannata festa del 25 Aprile per esternare il proprio pensiero a riguardo.
Napolitano parla ai partiti politici italiani sempre più spesso, travalicando, sempre più spesso, il ruolo che la carta costituzionale ha assegnato alla più alta carica dello Stato. Il Presidente anche questa volta parla ai partiti per i partiti, elevandosi a portavoce del popolo, cercando di assumere il ruolo di suo interprete e garante.
I timori presidenziali sono tutti rivolti a quel fenomeno montante di anti-politica, che sta attraversando l’Italia, complice anche la serie di scandali recenti, che hanno trasversalmente coinvolto le principali forze politiche nazionali, e la generale sfiducia che il popolo orami nutre nei riguardi di una classe dirigente palesemente non all’altezza della crisi strutturale che sta colpendo l’Occidente.
Ancora una volta la classe politica italiana sembra autoescludersi dalla ribalta internazionale, lasciando il compito di rappresentarla a dei “tecnici”, che da sempre si dimostrano decisamente più pragmatici dei dirigenti di partito, ma che rappresentano istanze che non hanno quasi mai coinciso con il bene comune, ma piuttosto con interessi oligarchici. E’ un fenomeno ciclico che contraddistingue da decenni la nostra nazione. Nel momento di prendere decisioni drastiche, o di incarnare gli interessi nazionali, la politica italiana decide di non decidere; delegando a chi non deve rispondere al popolo delle proprie iniziative.
Eppure Napolitano sembra non curarsi di ciò. Nei suoi intendimenti i partiti dovrebbero fare in poco tempo quello che non sono stati in grado di fare, o non hanno voluto fare, a cavallo di ben due secoli.
La salma presidenziale pensa che la nausea degli italiani nei confronti del marciume politico imperante sia un vezzo estetico, un capriccio momentaneo (leggasi il riferimento a quel che lasciò l’attività de L’Uomo Qualunque di Giannini). Non comprendendo quanto siano cambiati i tempi, e dimostrando (ancora una volta) il suo essere un vecchio signore lontano dalla realtà, e anche un po’ rincoglionito.
Forse Napolitano dovrebbe ponderare meglio le sue preoccupazioni, andando magari a scoprire la radice che sostiene e nutre l’incapacità della classe politica nazionale di far breccia presso il popolo, e di esserne l’anima rappresentativa.
Invece di preoccuparsi dei “demagoghi”, il Presidente dovrebbe affrontare il fallimento del sistema da cui lui stesso proviene, e che l’ha portato sulla seggiola più in vista dello Stato italiano.
Napolitano parla a vuoto di leggi elettorali, di riforme, puntella il Governo Monti con paternalismo stucchevole, mentre gli stessi partiti, che lui ritiene “indispensabili”, stanno già mestando nel torbido dei palazzi, per far saltare l’algido “Professore”, e dirigersi verso una nuova tornata elettorale.
Il panorama è quanto mai decadente e animato da figure squallide e scellerate.
Il disastro incombente non sembra tuttavia preoccupare né i partiti, e nemmeno la mummia assisa sul Quirinale.

giovedì 26 aprile 2012

Avvocato "pentito": lascio Equitalia.

Grazie, collega.
Dal sito del quotidiano Il Mattino, di Marisa La Penna:

«Non difenderò più Equitalia. E rinuncerò al mio onorario per le cause fatte finora». Parla l’avvocato Gennaro De Falco, 55 anni, napoletano, che faceva parte del nutrito pool di legali che assistono la società pubblica - 51 per cento Agenzia delle Entrate e 49% Inps - incaricata della riscossione nazionale dei tributi. E lo fa con una lettera aperta al nostro giornale. De Falco scrive, tra l’altro: «Conoscevo Peduto, l'immobiliarista napoletano che si è suicidato dopo aver ricevuto una cartella di Equitalia. L’ho incontrato per la prima volta nel ’95 quando gli diedi incarico di vendere la mia casa. Aveva figli della stessa età dei miei e la sua agenzia era nel mio quartiere vicino al mio studio. Insomma, le nostre vite scorrevano quasi parallele».
«Questo suicidio di cui a torto o ragione mi sento corresponsabile mi ha convinto a non accettare più incarichi di difesa di Equitalia. Sto pensando di devolvere alla sua famiglia la quota dei miei onorari quando mi verranno corrisposti. In queste condizioni non mi sento di andare avanti, in Italia in questi anni si è messo in moto un meccanismo diabolico che sta distruggendo famiglie, persone ed imprese» riprende il legale. E conclude: «Non so se questa mia decisione servirà a qualcosa ma almeno alleggerirà la mia coscienza, forse aiuterà a restituire un minimo di dignità agli avvocati ed a far riflettere tutti sulla sostenibilità sociale ed etica della gestione di questa crisi».

mercoledì 25 aprile 2012

Comunicazione di servizio.

Alessio P. mi ha gentilmente chiesto alcuni testi per una sua amica che sta lavorando alla tesi di laurea, ma mi risulta impossibile rispondergli perchè le mie mail inviate al suo indirizzo di posta elettronica non partono. Gli chiedo la cortesia di comunicarmi un altro indirizzo.

martedì 24 aprile 2012

Politici alla sbarra.

Stanno accadendo, tutte insieme, tante cose.
Diventa sempre più difficile mantenere l'attenzione concentrata sui fatti veramente importanti. I frequentatori del nostro blog si saranno accorti che, proprio in questi giorni, i post si sono rarefatti anzichè infittirsi: non è un caso, vorrei proprio evitare l'eccesso di informazione che distoglie dai temi cruciali.
E per ricordarci che all'estero non si perdono in sottili disquisizioni su quanto il Front National assomigli o non assomigli alla Lega Nord (che pena, ieri sera, Gad Lerner... quello sarebbe un giornalista...??) ma badano più al sodo, mi pare utile questo, non recentissimo, articolo di Alessio Mannini dal sito ilribelle.com:

 In Islanda c’è il primo caso di ex primo ministro alla sbarra con l’accusa di colpevole default: Geir Haarde (nella foto) è stato incriminato per negligenza – un evidente eufemismo per dire connivenza - nel mandato 2006-2009. Che è come dire ieri. Nessuna scusa, nessun rinvio a future storicizzazioni che fan passare tutto in cavalleria: uno degli artefici della catastrofe finanziaria della piccola isola dell’Atlantico verrà giudicato da un regolare tribunale. Del resto la legge, se non serve il popolo, che razza di legge è?
Non che sia l’unico, intendiamoci. Ma in ogni caso non stiamo parlando di un capro espiatorio, perché gli islandesi hanno saputo sollevarsi dal pantano di cui, come tutti i beoti votanti democratici occidentali, erano stati essi stessi corresponsabili.
Proprio dal 2009 è cominciata quella silenziosa, silenziata, pacifica ma determinata e agguerrita “rivoluzione” che, tramite referendum, cambi di governo e un’assemblea di rifondazione costituzionale, ha ridato ai 300 mila isolani la sovranità economica e la libertà politica, ripudiando il debito con le banche estere, nazionalizzando quelle di casa propria e uscendo dal meccanismo usuraio del Fmi.
La gente d’Islanda, insomma, si è riscattata. E ora, giustamente, chiede giustizia a chi l’ha governata vendendo il paese alla finanza. La tesi accusatoria è che l’ex premier non ha esercitato nessun controllo sui banksters che saccheggiavano la ricchezza nazionale, nascondendo la verità  all’opinione pubblica. La pena è tutto sommato molto inferiore a quella che, personalmente, mi sentirei di dover infliggere a un politico corrotto di tal fatta: appena due anni di gattabuia. Ma importante, nel contesto internazionale di perdonismo minimizzante e assolutorio verso chi questa crisi l’ha provocata e ci ha mangiato, è la valenza simbolica del processo. Fra parentesi, ridicola la difesa di Haarde: «Nessuno di noi a quel tempo capiva che c´era qualcosa di sospetto nel sistema bancario, come è diventato chiaro adesso», ha detto al giudice. Meglio passare da cretini che da criminali, vero? Questi politicanti con la faccia come il culo…
È interessante notare che nell’orbe terracqueo esiste un altro Stato con un governo deciso a fargliela vedere ai predecessori complici dell’usurocrazia bancaria. È la tanto vituperata Ungheria, in cui l’anno scorso il premier locale, Viktor Orbán, ha presentato un disegno di legge per trascinare sul banco degli imputati i tre leader socialisti, Peter Medgyessy, Ferenc Gyurcsany e Gordon Bajnai, che dal 2002 al 2010 hanno portato il debito pubblico dal 53 all’80% del Pil, mentendo sapendo di mentire sulla situazione dei conti. Nell’Europa beneducata e manovrata a bacchetta dalla troika Ue-Bce-Fmi, Orbán viene dipinto come un pericoloso despota fascista (è invece un nazional-conservatore: discutibile finché si vuole, ma trattasi di destra nazionalista vecchio stampo, e perciò non allineata al pensiero unico global ed eurocratico come invece sono le destre liberal-liberiste stile Sarkozy, Berlusconi e compagnia). 
Budapest, in realtà, sia pur “da destra”, sta seguendo lo stesso schema di liberazione che Rejkyavik sta conducendo “da sinistra”: riconquistare l’autodeterminazione e chiedere il conto ai responsabili della rovina. Il solito Corriere della Sera, quando nello scorso agosto uscì la notizia della proposta di legge, commentò con Giorgio Pressburger che il diritto non può essere retroattivo, e condì il tutto con un prevedibile, stantìo spauracchio del ritorno all’eterno fascismo. Oh bella: adesso non si può introdurre un nuovo reato se questo inguaia i servetti del sistema bancario mondiale? Cos’è, lesa maestà finanziaria? E gli islandesi cosa sono, tutti fascisti anche loro? Come sempre penosi, gli avvocati difensori dell’associazione a delinquere altrimenti nota come speculazione. 

sabato 21 aprile 2012

Alain de Benoist su La 7 lunedì 23 aprile.

Segnalo una trasmissione televisiva che potrebbe essere molto interessante.
Se qualche frequentatore del blog avrà modo di assistervi, dopo potremmo confrontare le impressioni che ne abbiamo ricavato.

Sull'Orlo del Baratro
Il fallimento annunciato del sistema denaro
Alain de Benoist ospite in studio della trasmissione
L’Infedele diretta da Gad Lerner su La 7
Lunedì 23 aprile alle ore 21.10

Sull'Orlo del Baratro
è il nuovo libro di Alain de Benoist
che sarà in vendita in libreria e online
a partire da venerdì 20 Aprile

Arianna Editrice - pag. 184 - euro 9,80

Il sistema finanziario internazionale è scosso dalle basi e la crisi dell'euro sta spaventano il mondo intero.
Il debito continua ad aumentare , come pure i deficit che hanno raggiunto un valore molto alto.
Le contraddittorie stime degli esperti si sommano all'impotenza dei politici.
Nessuno ha ricette valide e tutti navigano a vista.

Siamo forse giunti alla fine del sistema del denaro?
Con Sull'Orlo del Baratro Alain de Benoist, ci mostra un quadro preciso e reale dell'attuale situazione economica globale e di cosa fare per uscire da questa crisi.

Non è certamente limitandosi a indignarsi che cambieranno le cose.
Lo sdegno che non sfocia nell'azione concreta è una comoda maniera di sentirsi a posto con la coscienza.

Solo un forte intervento dei ceti popolari può dare allo sdegno nei confronti dell'attuale sistema, o semplicemente al malcontento antibancario, una base sociale concreta in grado di invertire la rotta verso un modello comunitario di economia sostenibile.

giovedì 19 aprile 2012

Il Politecnico di Milano tradisce la cultura italiana.

La notizia era già circolata qualche tempo fa. Al giornalista Federico Cenci, ora, il merito di commentarla adeguatamente.
Dal sito www.ilbersaglio.info:

A partire dall’anno accademico 2014-2015 al Politecnico di Milano si terranno solo corsi in lingua inglese. Il rettore Giovanni Azzone spiega che la scelta è votata ad offrire “un’apertura culturale internazionale, perché un ragazzo che si affaccia sul mondo del lavoro deve abituarsi a lavorare in contesti internazionali”. La notizia è passata un po’ sottotraccia, nessuna polemica né dibattiti. Segno che il nostro Paese già si trova in una fase di cambiamento radicale, tale da rendere non particolarmente clamorosa - alle orecchie dell’opinione pubblica - una notizia così singolare. Evidentemente gli italiani caldeggiano questa presunta necessità, evocata dal professor Azzone, di “aprirsi ad una cultura internazionale”, a costo addirittura di rinunciare alla propria. Già, perché una così palese bocciatura della nostra lingua da parte di uno dei più prestigiosi atenei del Paese rappresenta una disastrosa retrocessione della cultura italiana. Se in casa propria la lingua madre viene ritenuta inadatta alla formazione della futura classe dirigente, si nega la capacità della nostra cultura di rispondere alle nuove esigenze globali. Sradicare l’italiano dai corsi universitari di materie tecnico-scientifiche significa considerare la nostra forma mentis - dalla quale nasce il modo di comunicare, il linguaggio - un ostacolo all’apprendimento di nozioni oggi determinanti le dinamiche economiche e politiche. Una forma di razzismo culturale edulcorata dall’esigenza di stare “al passo coi tempi”. Curioso che questa notizia arrivi a breve distanza di tempo dalla fine delle celebrazioni per la ricorrenza dell’unità d’Italia, durante le quali il presidente Napolitano ha solennemente affermato che la lingua italiana si colloca “tra i fattori portanti dell’unità nazionale” e che, dunque, “deve stare al centro del percorso formativo del sistema della conoscenza”.
Stando a come uno dei maggiori atenei pubblici d’Italia intende riformarsi dal 2014, non si direbbe che le parole pronunciate dal presidente della Repubblica abbiano goduto di grossa considerazione. Del resto, la retorica è un bell’esercizio oratorio che spesso resta tale; mentre i provvedimenti concreti vengono sovente accompagnati da più freddi comunicati ma almeno sortiscono effetti reali. In questo senso è possibile riferirsi a ciò che è avvenuto più di un anno fa in Cina, Paese per altro profondamente inserito nel contesto scaturito dalla globalizzazione. Il governo di Pechino ha bandito l’uso della lingua inglese nei media nazionali. L’Agenzia Stampa di Stato ha motivato la battaglia contro l’allogeno idioma anglosassone sostenendo che il suo abuso “mina la purezza della lingua nazionale” e “distrugge uno sviluppo linguistico e culturale sano e armonioso, ed esercita un influsso negativo sulla società”. Chiarisce inoltre l’Agenzia Stampa di Stato che sarà possibile utilizzare parole straniere solo in casi straordinari, salvo fornire un’adeguata traduzione o spiegazione in cinese. Previste, per quanti contravvengono a quanto stabilito, sanzioni amministrative dall’ammontare pecuniario non specificato.
Qualcuno ha definito parodistica tale severa presa di posizione a difesa della purezza della lingua cinese, qualcun altro la ritiene una battaglia obsoleta e persa in partenza. Tuttavia non mancano difensori di questo segnale di resistenza culturale all’appiattimento. Tra loro, l’Ambasciatore Bruno Bottai, presidente della “Società Dante Alighieri”, associazione che si occupa dell’insegnamento e della difesa della lingua e della cultura italiane. “Dai cinesi ci giunge un vero e proprio esempio di coscienza nazionale - affermò il Presidente della “Dante” -: tutti noi riconosciamo l’indiscusso valore dell’inglese quale idioma veicolare, ma consideriamo comunque irrinunciabili la difesa e la promozione della nostra lingua, simbolo di identità ed elemento unificatore dell’Italia. Per questo condividiamo in pieno la presa di posizione della Cina, custode di una lingua di millenaria cultura”. Una posizione di retroguardia rispetto a quell’apertura alla cultura internazionale di cui si farà presto alfiere il Politecnico di Milano? Forse è meglio definirla così: parole di buon senso - prima ancora che di amor patrio - pronunciate da un illustre rappresentante di quel che resta dell’Italia.

sabato 14 aprile 2012

Lidia Undiemi lascia l'IDV.

Nel blog abbiamo più volte citato il nome di Lidia Undiemi, l'economista palermitana a cui va il merito di avere smascherato il "giochino" dell'ESM.
Credo che sia ora utile informare che la Dott.ssa Undiemi ha lasciato il partito in cui militava, l'IDV. La considero una notizia utile per comprendere sempre meglio la politica italiana e posto un commento di Francesco Maria Toscano, dal sito www.ilmoralista.it, dedicato alla vicenda. 

IN DIFESA DI LIDIA UNDIEMI

Per capire il degrado nel quale versano i nostri partiti è utile leggere, più che le boccaccesche storie della leader del sindacato padano Rosy Mauro e dell’artista “Pier Mosca,” autore tra l’altro dell’imperdibile pezzo Kooly Noody,  la lettera di dimissioni con la quale una giovane ( e brava) economista, Lidia Undiemi, dà il benservito al partito di Di Pietro (clicca per leggere). La Undiemi, oramai ex responsabile nazionale di una sezione del dipartimento lavoro dell’Idv, ha commesso l’imperdonabile errore di esercitare il suo ruolo con serietà, impegno e competenza, tutte doti che spaventano a morte gli oligarchi al potere. Nel merito la Undiemi denuncia il silenzio complice dell’Idv circa l’intento del governo Monti di trasferire 125 miliardi di euro ad una organizzazione finanziaria intergovernativa, l’ESM, volgarmente conosciuta come “fondo salva Stati”. Quello stesso fondo, specializzato in omicidi di massa, che ha già strozzato la Grecia e  si appresta ora a torturare altri Paesi dell’Europa meridionale. In teoria queste istituzioni sovranazionali avrebbero il compito di aiutare i Paesi in difficoltà a risollevarsi nei periodi di crisi economica. Nella realtà costituiscono, al contrario, il braccio armato attraverso il quale il progetto di svuotamento delle democrazie nazionali prende forma, al fine di imporre con la forza del ricatto i dogmi neoliberisti elaborati in sedi non democratiche da ben noti consessi elitari e neoschiavisti (clicca per leggere). I tre partiti che sostengono il governo, Pdl, Pd e Udc, sono parte integrante del piano golpista in atto. La Lega nord è stata sistemata con le inchieste mentre l’Idv, come dimostra chiaramente il racconto della Undiemi, si limita  a recitare una parte in commedia. La dittatura tecnocratica che ci governa, come ogni regime che si rispetti, non può sopportare la presenza di una opposizione reale e nel merito dei provvedimenti. Il mare di bugie e di interessate adulazioni che accompagna l’operato di Monti è indispensabile per la buona riuscita del piano malefico in atto. A Di Pietro, in questa ottica, è affidato dal sistema  il ruolo del Pierino che sbraita per accattivarsi le simpatie degli indignati in buona fede, le cui legittime richieste verranno successivamente congelate dall’atteggiamento ipocrita dell’imbonitore di turno. Di Pietro è un uomo senza cultura attorniato da gente, se possibile, ancora meno colta. Un partito costruito intorno ad una figura macchiettistica specializzata nell’aizzare strumentalmente le masse, come può valorizzare una professionista intellettualmente attrezzata come la Undiemi? A questa gente, maschere senz’anima che popolano il tubo catodico, il sapere fa più paura di un avviso di garanzia. Tralascio di commentare la delusione della Undiemi verso un personaggio come Leoluca Orlando (quello che accusava Falcone di tenere le carte nei cassetti),  la cui moralità in politica si coglie appieno dall’atteggiamento isterico dallo stesso assunto in occasione delle primarie palermitane che hanno incoronato Ferrandelli anziché la sua preferita Rita Borsellino. In conclusione massima solidarietà a Lidia Undiemi, espressione di un modo di intendere il governo della cosa pubblica che, nel buio della storia che viviamo, non ha più nessun diritto di cittadinanza.

venerdì 13 aprile 2012

In Irlanda è rivolta fiscale.

Spenti ormai i riflettori sui clamorosi fatti islandesi, ora sono le notizie in arrivo dall'Irlanda a mandare in fibrillazione i siti di controinformazione.
Da www.controlacrisi.org, di Fabio Sebastiani:

"Il debito non lo paghiamo".
In Irlanda è rivolta fiscale. Migliaia di irlandesi sono scesi in strada sabato per protestare contro le nuove misure di austerità e i rincari fiscali. E la nuova tassa sulla casa è stata rispedita al mittente da metà della popolazione.
La corda si è spezzata. Mentre si assiste al crollo dei prezzi immobiliari, ai fallimenti a catena di aziende e banche, e imperversa disoccupazione e povertà, i cittadini irlandesi hanno deciso di provare a liberarsi dal ricatto dell’economia finanziaria che ha messo sulle loro spalle un prestito di novanta miliardi di dollari di Fmi e Ue.
Centinaia di migliaia di persone ora rischiano di subire delle multe e potenzialmente anche di finire a processo. Si tratta a tutti gli effetti di una rivoluzione fiscale che potrebbe smantellare la strategia del governo volta a rimettere in sesto l'economia e rendere ancora più difficile l'implementazione delle nuove misure di austerità.
Tra gli slogan campeggiavano "Non posso pagare, non paghero'". "Quando i banchieri pagano, allora pagheremo anche noi!". Chi si oppone alla tassa, sostiene che l'aliquota è identica sia per i benestanti sia per i piu' poveri. L'indignazione è alimentata dalla percezione generale che un gruppo elitario di banchieri, politici e agenti immobiliari ultra ricchi ha distrutto l'economia senza aver ancora pagato un soldo e senza aver ricevuto la punizione che si merita.
L'introduzione della tassa contro le famiglie è stata accolta con una campagna contraria lanciata da attivisti politici e anche piccole comunità, che hanno esortato tutti a boicottare la nuova imposta. Visto il successo riscontrato dalle iniziative, devono aver sicuramente stimolato un nervo scoperto.
Come se non bastasse, tutto cio' sta accadendo mentre il paese si prepara a recarsi alle urne in occasione di un referendum sul Fiscal Compact. Un'eventuale bocciatura del nuovo patto di bilancio europeo il 31 maggio, quando andrà in scena il voto popolare, porterebbe alla fuga degli investitori stranieri necessari per la ripresa economica dell'isola. Secondo un recente sondaggio, il 49% degli intervistati si è dichiarato a favore del trattato, il 33% contrario mentre il 18% e' ancora indeciso.

domenica 8 aprile 2012

Io sto con Bossi

Dal sito di informazione noreporter, un articolo sulla vicenda della Lega scritto da un intellettuale originale ed eccentrico quale è Gabriele Adinolfi.
Consentitemi un commento molto epidermico: d'accordo sulla (ben motivata) analisi politica di Adinolfi, ma, se gli illeciti saranno confermati, ben venga questo scandalo se potrà liberarci della famiglia Bossi...!!

Forza Bossi, resisti!
Ma allora, direte voi, è colpevole o innocente? Non è per me il punto centrale.
Non lo è se si tiene conto della situazione italiana, dove la politica parlamentare è corrotta ontologicamente,: lo è negli stipendi, nelle agevolazioni, nelle pensioni, nei privilegi e nelle prebende. Lo è nella prassi per la quale, tranne casi rarissimi di gente ricca già di suo, come il Cavaliere, il mangia-mangia (ben altro da quello imputato al Senatùr) è tradizione ampiamente condivisa. Lo è infine nella selezione visto che non si fa strada se non si è ricattabili. E non si è ricattabili se non si è cristallini. Ergo, sillogismo, nessun politico di punta in questo sistema sarà mai cristallino
Insomma che Bossi sia stupidamente colpevole della dolosa leggerezza che gli è costata la segreteria della Lega ci può stare.
Ma non ci stanno né l’interessamento sospetto che ha prodotto quest’effetto né la campagna mediatica che ne consegue e che è sproporzionatissima, una  campagna di terrorismo “giustizialista” stile ’92.
Una strategia criminale
Nemmeno c’è da chiedersi cosa abbia mosso questa manovra di letterale eliminazione politica, ennesima imposizione di un’oligarchia arrogante sostenuta da centrali d’intellighenzia criminale.
Fuori Bossi – si sono detti i burattinai – fuori la Lega.
Il che si traduce in quanto segue.
Il sicuro malcontento delle basi sindacali probabilmente produrrà a medio termine nuove aggregazioni massicce di base. Come sconfiggerle?
Innanzitutto creando ad arte un soggetto politico che fingerà di far loro sponda per soffocarne le istanze: e questo è l’Idv. Il quale Idv deve trovare il terreno sgombero da rivali sociali meno manipolabili, e non ce ne sono molti in giro oltre alla Lega. Slegarla quella Lega è quindi un obiettivo non da poco.
La manovra non finisce lì perché è evidente anche ai ciechi che, nella prospettiva dell’immobilizzazione sociale, i soliti noti stanno armando imbecilli di sinistra radicale cui affidare, in futuro, quelle accelerazioni suicide che potranno criminalizzare e spaventare i lavoratori.
Frattanto si prevede sempre l’intervento dello stragismo e si approntano i capri espiatori islamici o fascisti. Con tanto di sigla cult pronta al rogo (Casa Pound).
Come imbavagliare, paralizzare e ingannare il popolo i tecnici lo sanno, eccome.
Subiamo tutti, nessuna fascia sociale esclusa e nessun ambiente politico risparmiato, un’offensiva liberticida destinata ad eliminarci ad uno ad uno.
Per questo si deve fare quadrato a difesa di Umberto Bossi. Oppure si accetti, in futuro, di assumersi le responsabilità di essere stati funzionali ad una strategia liberticida, antisociale e stragista.

sabato 7 aprile 2012

Noi, "plebaglia europea" ingannata dai trattati-capestro

Posto un articolo che mi è piaciuto molto per la capacità di sintetizzare in (relativamente) poche righe la storia dei nostri anni. Assolutamente condivisibile l'affermazione secondo la quale i politici di domani dovranno porre rimedio a due decenni di errori, anche se, a mio avviso, i decenni non sono due ma sei o sette poichè i trattati-capestro degli ultimi 20 anni sono il frutto di ciò che si è seminato nel mezzo secolo precedente.
Complimenti all'autore Giorgio Cattaneo. 
Dal sito libreidee:

«Ma cosa crede, la plebaglia europea: che l’euro l’abbiamo creato per la loro felicità?». Parole, testuali, dell’economista francese Jacques Attali, gran maestro – insieme a Jacques Délors – di leader storici del centrosinistra italiano, come Massimo D’Alema. A raccontare lo sconcertante aneddoto è Alain Parguez, già consigliere di François Mitterrand. Il professor Parguez era presente al summit organizzato lo scorso febbraio a Rimini da Paolo Barnard con gli economisti neo-keynesiani della Modern Money Theory, gli uomini che hanno “resuscitato” l’Argentina. Tesi: chi è dotato di moneta sovrana non può temere il debito pubblico, che invece diventa un’autentica tragedia se gli Stati non possono più stampare moneta, ma sono costretti a prenderla in prestito, a caro prezzo. L’Europa? Praticamente, un caso unico al mondo di suicidio finanziario organizzato, pianificato all’insaputa di mezzo miliardo di persone, cioè noi.
Il suicidio monetario dell’Europa – leggasi: euro – è stato attuato all’indomani della caduta dell’Unione Sovietica: finita la Guerra Fredda, evidentemente, il continente europeo ha perso di colpo la sua funzione strategica di baluardo atlantico, trasformandosi in una gigantesca area-test per un esperimento senza precedenti, e cioè la confisca arbitraria delle residue sovranità nazionali a cominciare da quella principale, la sovranità monetaria, condizione indispensabile allo Stato per poter investire risorse a beneficio dei cittadini. Non abbiamo idea, dice Parguez, di quanto gli “inventori” dell’euro odiassero l’Italia e la vitalità creativa della sua economia, capace di rivaleggiare con la Germania dopo aver surclassato, in molti settori, grandi potenze come Francia e Gran Bretagna. Ma se è interamente franco-tedesco il piano europeo che ha configurato l’introduzione dell’euro a vantaggio dell’oligarchia finanziaria, è Wall Street il massimo beneficiario della privatizzazione del debito pubblico. Ed è stata proprio la banca centrale statunitense, la Federal Reserve, a tenere in piedi il sistema bancario europeo drogato dai titoli derivati che, sulla base di autentica carta straccia, hanno assicurato profitti miliardari ai super-speculatori della grande crisi.
In Italia, il degrado della casta al governo – aggravato dall’agonia dell’ultima stagione berlusconiana – ha preparato il terreno per la restaurazione autoritaria di Mario Monti, commissario inviato dagli stessi poteri forti che hanno accuratamente preparato la crisi. Per la prima volta, il 31 marzo, nelle strade milanesi invase dal corteo “Occupyamo Piazza Affari”, i vari portavoce della protesta hanno insistito su un punto: non è accettabile che la libertà della cittadinanza europea sia stata sequestrata con un golpe bianco, silenzioso, che ha di fatto privato i cittadini-elettori del potere di decidere del loro destino. Col Fiscal Compact, dal 2013, nessun governo europeo democraticamente eletto potrà più scegliere in modo autonomo come spendere i suoi soldi; dovrà prima ottenere il placet della Commissione Europea: l’ultima parola spetterà al super-clan degli oscuri tecnocrati non eletti da nessuno, da sempre agli ordini della grande finanza e dei suoi poteri mondiali, dalle lobby di Bruxelles alla World Trade Organization. Certo, i cittadini europei potranno continuare a votare: ma solo per governi che non avranno più il potere di decidere nulla. Tecnicamente: la fine della democrazia?
Per gli economisti della Modern Money Theory, si tratta di un vero e proprio piano criminale organizzato molto tempo addietro e ispirato da teorici come il francese François Perroux, secondo cui sarebbe stato opportuno togliere agli Stati la loro ragion d’essere, ovvero la capacità di spesa a deficit a favore dei cittadini, che si può attuare solo se si dispone di una propria moneta sovrana – come il dollaro americano, lo yuan cinese, lo yen giapponese, la sterlina inglese e tutte le altre monete sovrane del mondo. Oggi l’Europa a trazione tedesca è completamente fuori combattimento, succube della Bce e degli oligarchi neo-feudali di Bruxelles che, a colpi di trattati – da Maastricht a Lisbona – hanno deciso, senza mai neppure uno straccio di referendum, che noi “plebaglia europea” non avremmo più avuto voce in capitolo e saremmo stati retrocessi, da cittadini a sudditi. Movente? Moltiplicare i maxi-affari sulla nostra pelle: meno diritti, dipendenti precarizzati, aziende senza lavoro e senza più credito bancario, beni pubblici saccheggiati e privatizzati. A tutto vantaggio dei grandi “rentiers”, gli eredi moderni degli antichi proprietari terrieri, spaventati – nel dopoguerra – dall’avanzata delle democrazie partecipative in tutto l’Occidente.
Nell’Italia che Mario Monti si appresta a rottamare, come se ormai la politica fosse una mera questione tecnica, di aritmetica aziendale governata dal vertice della proprietà, un elettore su due annuncia che non andrà alle urne, dato l’incredibile spettacolo offerto da centrodestra e centrosinistra, ormai formalmente alleati. In Francia, la campagna elettorale di François Hollande si carica di toni anti-tedeschi: come già l’ex ministro italiano delle finanze, Rino Fornica, anche i politici transalpini ora accusano Mario Draghi di fare esclusivamente il gioco della Germania, che punta a far crescere il suo export a nostre spese e a declassare l’Europa del Sud per creare un mercato del lavoro a basso costo. Lentamente, dopo vent’anni di black-out politico in cui abbiamo puntualmente applaudito i trattati internazionali creati per seppellire gradualmente la nostra libertà ad esclusivo beneficio di potentissime lobby, proprio la durezza della crisi e la scure del “rigore” producono segnali di risveglio.
I politici di domani, dice la piazza di Milano gremita di indignados, dovranno sostanzialmente stracciare due decenni di storia e annullare tutti i trattati-capestro firmati contro di noi. L’ha ribadito apertamente anche un altro francese, l’ex premier Michel Rocard: restiamo Europa, certo, ma dobbiamo costruire insieme un’Europa ben diversa, legittima e democratica, bonificandone le istituzioni politiche e finanziarie. Nazionalizziamo la Banca d’Italia, propone Giulietto Chiesa, che non si nasconde che la piena sovranità italiana non è mai esistita: ieri eravamo subalterni e scoppiavano bombe nelle piazze; oggi ci aspetta una sorta di nuova schiavitù?  Di questo, d’ora in poi, si dovrà pretendere che parli, anche in Italia, la prossima campagna elettorale.

venerdì 6 aprile 2012

Orwell in Afghanistan

Quando posto scritti di Massimo Fini, provoco sempre reazioni vivaci, e a volte vere contestazioni.
Scusate ma continuo e continuerò a farlo, perchè Massimo Fini sarà anche brutto sporco e cattivo, ma - a prescindere dalla condivisibilità o meno di tanti suoi giudizi - ci costringe a spalancare gli occhi su fatti che esistono.
Da Il Fatto Quotidiano del 31.3.2012:

Viviamo sempre più in un mondo orwelliano. In '1984' gli slogan del Partito sono tre: “ LA GUERRA E' PACE”; “ LA LIBERTA' E' SCHIAVITU' ”; “L'IGNORANZA E' FORZA”. Per i primi due ci siamo in pieno. Non intendo in alcun modo mancare di rispetto al sergente Michele Silvestri ucciso in Afghanistan durante l'attacco talebano, era un soldato e faceva il suo mestiere, ma definirlo un “costruttore di pace” come ha fatto nella sua omelia monsignor Vincenzo Pelvi, seguito dalle autorità e dai commentatori, è un rovesciamento orwelliano della realtà. Noi, con i nostri alleati, non siamo in Afghanistan per portare pace, ma per fare la guerra ai talebani e agli insorti, cioè a una parte consistente del popolo afghano. La cosa straziante della morte del sergente Silvestri come di quella degli altri 49 soldati caduti in Afghanistan, è che sono morti inutili. Silvestri e gli altri non difendevano la Patria, si trovavano al contrario nella posizione odiosa degli occupanti. Possibile che noi italiani, che abbiamo fatto della Resistenza un mito, anche eccessivo, non riusciamo a comprendere quella di un popolo che da undici anni si oppone all'occupazione dello straniero?
Il sergente Silvestri quando telefonava ai genitori diceva: “E' dura! Ma la gente ci vuol bene perchè ha capito che non siamo occupanti ma amici...” ('La libertà è schiavitù'). Probabilmente lo diceva per rassicurarsi, per dare un senso a una missione che non ne ha. Monsignor Pelvi ha chiosato: “Pattugliava le strade e distribuiva cibo alla povera gente, difendeva i quartieri dall'attacco dei terroristi, accogliendo i bambini nei fortini, fermava i trafficanti di armi e ripristinava acquedotti distrutti dalla guerra”. Commovente. Peccato che l'occupazione occidentale, nel suo complesso, sia stata devastante per il popolo afghano, materialmente, economicamente, socialmente e moralmente. La disoccupazione che durante il governo talebano era all'8% è salita al 40 e in alcune regioni all'80. I Talebani avevano ricacciato oltreconfine i 'signori della guerra' (che ora sostengono Karzai), spazzato via i predoni, disarmato la popolazione. La corruzione che con i Talebani non esisteva, oggi è endemica, nel governo, negli amministratori locali, nella polizia, nell'esercito e nella magistratura tanto che gli afghani, anche quando non sono simpatizzanti del Mullah Omar, preferiscono rivolgersi alla giustizia talebana che, sia pur spiccia, è almeno una giustizia e non una corsa a chi paga di più per avere una sentenza favorevole. In Afghanistan c'è un'amministrazione parallela, talebana, a quella governativa. Nel 2000 il Mullah Omar, proibendo la coltivazione del papavero, aveva fatto crollare quasi a zero la produzione dell'oppio che oggi rappresenta il 93% di quella mondiale (mi piacerebbe che qualcuno contestasse questi dati invece di bollarmi come 'amico dei terroristi'). E se anche fosse vero che gli italiani hanno ricostruito qualcosa di ciò che i sovietici prima, i nostri alleati poi (e noi stessi) hanno distrutto, vale, per tutte, la risposta che nel 2007, dopo uno dei primi attacchi al nostro contingente, in cui perdemmo un uomo, Oari Yasaf Ahmadi, allora il principale portavoce del Mullah Omar, diede al giornalista del Corriere Andrea Nicastro che gli obiettava che, in quell'occasione gli italiani volevano solo risistemare un ponte e fare 'un'opera di bene': “ Colpiremo ancora gli italiani. Non ci interessa se distribuiscono elemosine o sparano. Sono alleati degli americani e quindi invasori. Se ne devono andare. Prima lo capiscono e meglio sarà per loro”. Un consiglio che avremmo fatto bene a seguire prima di allineare cinquanta inutili caduti sul campo.

lunedì 2 aprile 2012

Attilio Befera & Attilio Befera

Ma voi lo sapevate che il Presidente di Equitalia ed il Direttore dell'Agenzia delle Entrate sono la medesima persona, Attilio Befera?
E lo sapevate che, quando il Befera ha assunto gli incarichi, esistevano già pesanti contenziosi tra l'Agenzia e la società concessionaria, per cui il Befera "non poteva non sapere" in quale situazione di conflitto andava ad infilarsi??
Per meglio inquadrare questo nostro nuovo e simpatico amico, posto un articolo che ricavo dal sito ilcanocchiale.it. 
Vi chiedo solo  una cortesia: nel rispondere, siate molto educati, perchè corre voce che ultimamente il Befera abbia la querela facile...

Mastrapasqua e Befera, predicano la trasparenza ... agli altri!
In nome della trasparenza ai cittadini si impone di giustificare ogni spostamento di denaro, si vorrebbe mettere on line addirittura le denunce dei redditi, ma quando la trasparenza viene chiesta ai politici, ognuno fa quello che gli pare (denunce dei redditi di anni passati, omissioni ed altre amenità), non va meglio con i superburocrati dello stato, che ci offrono uno spettacolo indecente …
Un pasticcio: sono emersi sdoppiamenti di incarichi quando sono stati messi on line nei siti istituzionali gli stipendi dei manager pubblici, con vistose omissioni e molte inesattezze, tra tutti emergono vistose mancanze da parte di chi occupa i vertici di Equitalia.
Il presidente dell'Inps, Antonio Mastrapasqua, risulta percepire solo lo stipendio dell'Inps, pari a 209 mila euro l'anno, mentre è noto che il manager convoglia su di se ben 22 altre cariche, tra cui quella di vicepresidente di Equitalia (ma c'è anche Telecom e Fandango) per cui il suo reddito supera ampiamente il milione di euro.
Per non parlare di Attilio Befera, l’integerrimo mastino del fisco, comparso solo per i suoi 304 mila euro l'anno come direttore dell'Agenzia delle Entrate e non anche per il suo stipendio come direttore di Equitalia.
A titolo di esempio, il capo dell'Fbi porta a casa 155mila dollari (intorno ai 116mila euro), cui si aggiungono delle compensazioni che variano tra il 12,5 e il 28% dello stipendio, ma vogliamo mettere la professionalità ed i pericoli che affrontano quotidianamente i due mandarini dello Stato? E poi, come qualcuno ha rilevato: bisogna retribuirli adeguatamente, altrimenti rischiamo che qualche azienda privata si accaparri risorse così qualificate!