lunedì 31 ottobre 2011

Islanda, ancora

Un altro bell'articolo (risalente a qualche mese fa) che, parlando di economia, parla in realtà di diritti dei popoli.
Dal sito avvocatisenzafrontiere.it:

Della "rivoluzione silenziosa" islandese che tanto stà affascinando gli italiani e il resto d'Europa, i media se ne guardano bene dal parlarne, nessuna trasmissione televisiva, partito di governo o di opposizione, attraverso cui viene esercitato il "controllo sociale", hanno mai preso in considerazione il "modello Islanda" come via maestra o, quantomeno, possibilità per i Paesi liberi di uscire dalla crisi finanziaria.
Per contro, ogni giorno quotidiani, telegiornali, trasmissioni televisive specializzate, politologi, economisti, etc., asserviti agli interessi della lobby di banchieri e galassie finanziarie che controllano l'economia mondiale, ci bombardano con soluzioni sempre più capziose e vessatorie per azzerare la sempre crescente voragine del debito pubblico prov ocato dalla sistematica rapina di ogni risorsa pubbica da parte del sistema dei partiti e dall'assenza di un piano di crescita fondato sui bisogni del Paese e il rispetto dei diritti del popolo italiano.
Dal secolo scorso è stato realizzato un sistema planetario socio-economico-politico-militare complesso capace di dominare, condizionare e indirizzare le politiche dei Paesi membri e le stesse scelte dei governati, realizzando ciò che in sociologia viene definito "controllo sociale", ovvero il consenso ma soprattutto il dissenso, onde consentire di mantenere inalterato il dominio e i privilegi di pochi sulla massa dei cittadini-sudditi.
L'Islanda è un tabù perché rappresenta l'alfa di nuovi comportamenti collettivi, che attraverso la diffusione di valori eti ci, morali e cognitivi più confacenti ai tempi e allo sviluppo dei moderni rapporti sociali e di produzione, apporterà un profondo e innarestabile mutamento socio-economico-culturale su scala europea, aprendo una nuova primavera e, per quanto possa riguardare il nostro Paese, un nuovo Rinascimento italiano, destinato ad allargarsi, come fu in passato, a macchia d'olio a tutta l'Europa, affermando il principio per cui la volontà del popolo sovrano deve  prevalere su qualsiasi accordo o pretesa internazionale.

Lontano dai riflettori. Islanda, quando il popolo sconfigge l'economia globale A cura di Andrea Degl'Innocenti
L'hanno definita una 'rivoluzione silenziosa' quella che ha portato l'Islanda alla riappropriazione dei propri dir itti. Sconfitti gli interessi economici di Inghilterra ed Olanda e le pressioni dell'intero sistema finanziario internazionale, gli islandesi hanno nazionalizzato le banche e avviato un processo di democrazia diretta e partecipata che ha portato a stilare una nuova Costituzione.
Una rivoluzione silenziosa è quella che ha portato gli islandesi a ribellarsi ai meccanismi della finanza globale e a redigere un'altra costituzione.
Oggi vogliamo raccontarvi una storia, il perché lo si capirà dopo. Di quelle storie che nessuno racconta a gran voce, che vengono piuttosto sussurrate di bocca in orecchio, al massimo narrate davanti ad una tavola imbandita o inviate per e-mail ai propri amici. È la storia di una delle nazioni più ricche al mondo, che ha affrontato la crisi peggiore mai piombata addosso ad un paese industrializzato e ne è uscita nel migliore dei modi.
L'Islanda. Già, proprio quel paese che in pochi sanno dove stia esattamente, noto alla cronaca per vulcani dai nomi impronunciabili che con i loro sbuffi bianchi sono in grado di congelare il traffico aereo di un intero emisfero, ha dato il via ad un'eruzione ben più significativa, seppur molto meno conosciuta. Un'esplosione democratica che terrorizza i poteri economici e le banche di tutto il mondo, che porta con se messaggi rivoluzionari: di democrazia diretta, autodeterminazione finanziaria, annullamento del sistema del debito.
Ma procediamo con ordine. L'Islanda è un'isola di sole di 320mila anime - il paese europeo meno popolato se si escludono i micro-stati - privo di esercito. Una città come Bari spalmata su un territorio vasto 100mila chilometri quadrati, un terzo dell'intera Italia, situato un poco a sud dell'immensa Groenlandia.
15 anni di crescita economica avevano f atto dell'Islanda uno dei paesi più ricchi del mondo. Ma su quali basi poggiava questa ricchezza? Il modello di 'neoliberismo puro' applicato nel paese che ne aveva consentito il rapido sviluppo avrebbe ben presto presentato il conto. Nel 2003 tutte le banche del paese erano state privatizzate completamente. Da allora esse avevano fatto di tutto per attirare gli investimenti stranieri, adottando la tecnica dei conti online, che riducevano al minimo i costi di gestione e permettevano di applicare tassi di interesse piuttosto alti. IceSave, si chiamava il conto, una sorta del nostrano Conto Arancio. Moltissimi stranieri, soprattutto inglesi e olandesi vi avevano depositato i propri risparmi.
La Landsbanki fu la prima banca a crollare e ad essere nazionalizzata in seguito al tracollo del conto IceSave.
Così, se da un lato crescevano gli investimenti, dall'altro aumentava il debito estero delle stesse banche. Nel 2003 era pari al 200 per cento del prodotto interno lordo islandese, quattro anni dopo, nel 2007, era arrivato al 900 per cento. A dare il colpo definitivo ci pensò la crisi dei mercati finanziari del 2008. Le tre principali banche del paese, la Landsbanki, la Kaupthing e la Glitnir, caddero in fallimento e vennero nazionalizzate; il crollo della corona sull'euro - che perse in breve l'85 per cento - non fece altro che decuplicare l'entità del loro debito insoluto. Alla fine dell'anno il paese venne dichiarato in bancarotta.
Il Primo Ministro conservatore Geir Haarde, alla guida della coalizione Social-Democratica che governava il paese, chiese l'aiuto del Fondo Monetario Internazionale, che accordò all'Islanda un prestito di 2 miliardi e 100 milioni di dollari, cui si aggiunsero altri 2 miliardi e mezzo da parte di alcuni Paesi nordici. Intanto, le proteste ed il malcontento della popolazione aumentavano.
A gennaio, un presidio prolungato davanti al parlamento portò alle dimissioni del governo. Nel frattempo i potentati finanziari internazionali spingevano perché fossero adottate misure drastiche. Il Fondo Monetario Internazionale e l'Unione Europea proponevano allo stato islandese di di farsi carico del debito insoluto delle banche, socializzandolo. Vale a dire spalmandolo sulla popolazione. Era l'unico modo, a detta loro, per riuscire a rimborsare il debito ai creditori, in particolar modo a Olanda ed Inghilterra, che già si erano fatti carico di rimborsare i propri cittadini.
Il nuovo governo, eletto con elezioni anticipate ad aprile 2009, era una coalizione di sinistra che, pur condannando il modello neoliberista fin lì prevalente, cedette da subito alle richieste della comunità economica internazionale: con una apposita manovra di salvataggio venne proposta la restituzione d ei debiti attraverso il pagamento di 3 miliardi e mezzo di euro complessivi, suddivisi fra tutte le famiglie islandesi lungo un periodo di 15 anni e con un interesse del 5,5 per cento.
I cittadini islandesi non erano disposti ad accettare le misure imposte per il pagamento del debito.
Si trattava di circa 100 euro al mese a persona, che ogni cittadino della nazione avrebbe dovuto pagare per 15 anni; un totale di 18mila euro a testa per risarcire un debito contratto da un privato nei confronti di altri privati. Einars Már Gudmundsson, un romanziere islandese, ha recentemente affermato che quando avvenne il crack, "gli utili [delle banche, ndr] sono stati privatizzati ma le perdite sono state nazionalizzate". Per i cittadini d'Islanda era decisamente troppo.
Fu qui che qualcosa si ruppe. E qualcos'altro invece si riaggiustò. Si ruppe l'idea che il debito fosse un' entità sovrana, in nome della quale era sacrificabile un'intera nazione. Che i cittadini dovessero pagare per gli errori commessi da un manipoli di banchieri e finanzieri. Si riaggiustò d'un tratto il rapporto con le istituzioni, che di fronte alla protesta generalizzata decisero finalmente di stare dalla parte di coloro che erano tenuti a rappresentare.
Accadde che il capo dello Stato, Ólafur Ragnar Grímsson, si rifiutò di ratificare la legge che faceva ricadere tutto il peso della crisi sulle spalle dei cittadini e indisse, su richiesta di questi ultimi, un referendum, di modo che questi si potessero esprimere.
La comunità internazionale aumentò allora la propria pressione sullo stato islandese. Olanda ed Inghilterra minacciarono pesanti ritorsioni, arrivando a paventare l'isolamento dell'Islanda. I grandi banchieri di queste due nazioni usarono il loro potere ricattare il popolo che si apprestava a votare. Nel caso in cui il referendum fosse passato, si diceva, verrà impedito ogni aiuto da parte del Fmi, bloccato il prestito precedentemente concesso. Il governo inglese arrivò a dichiarare che avrebbe adottato contro l'Islanda le classiche misure antiterrorismo: il congelamento dei risparmi e dei conti in banca degli islandesi. "Ci è stato detto che se rifiutiamo le condizioni, saremo la Cuba del nord - ha continuato Grímsson nell'intervista - ma se accettiamo, saremo l'Haiti del nord".
I Cittadini islandesi hanno votato per eleggere i membri del Consiglio costituente
A marzo 2010, il referendum venne stravinto, con il 93 per cento delle preferenze, da chi sosteneva che il debito non dovesse essere pagato dai cittadini. Le ritorsioni non si fecero attendere: il Fmi congelò immediatamente il prestito concesso. Ma la rivoluzione non si fermò. Nel frattempo, infatti, il governo - incalzato dalla folla inferocita - si era mosso per indagare le responsabilità civili e penali del crollo finanziario. L'Interpool emise un ordine internazionale di arresto contro l'ex-Presidente della Kaupthing, Sigurdur Einarsson. Gli altri banchieri implicati nella vicenda abbandonarono in fretta l'Islanda.
In questo clima concitato si decise di creare ex novo una costituzione islandese, che sottraesse il paese allo strapotere dei banchieri internazionali e del denaro virtuale. Quella vecchia risaliva a quando il paese aveva ottenuto l'indipendenza dalla Danimarca, ed era praticamente identica a quella danese eccezion fatta per degli aggiustamenti marginali (come inserire la parola 'presidente' al posto di 're').
Per la nuova carta si scelse un metodo innovativo. Venne eletta un'assemblea costituente composta da 25 cittadini. Questi furono sc elti, tramite regolari elezioni, da una base di 522 che avevano presentato la candidatura. Per candidarsi era necessario essere maggiorenni, avere l'appoggio di almeno 30 persone ed essere liberi dalla tessera di un qualsiasi partito.
Ma la vera novità è stato il modo in cui è stata redatta la magna charta. "Io credo - ha detto Thorvaldur Gylfason, un membro del Consiglio costituente - che questa sia la prima volta in cui una costituzione viene abbozzata principalmente in Internet".
L'Islanda ha riaffermato il principio per cui la volontà del popolo sovrano deve prevalere su qualsiasi accordo o pretesa internazionale
Chiunque poteva seguire i progressi della costituzione davanti ai propri occhi. Le riunioni del Consiglio erano trasmesse in streaming online e chiunque poteva commentare le bozze e lanciare da casa le proprie proposte. Veniva cos&igra ve; ribaltato il concetto per cui le basi di una nazione vanno poste in stanze buie e segrete, per mano di pochi saggi. La costituzione scaturita da questo processo partecipato di democrazia diretta verrà sottoposta al vaglio del parlamento immediatamente dopo le prossime elezioni.
Ed eccoci così arrivati ad oggi. Con l'Islanda che si sta riprendendo dalla terribile crisi economica e lo sta facendo in modo del tutto opposto a quello che viene generalmente propagandato come inevitabile. Niente salvataggi da parte di Bce o Fmi, niente cessione della propria sovranità a nazioni straniere, ma piuttosto un percorso di riappropriazione dei diritti e della partecipazione.
Lo sappiano i cittadini greci, cui è stato detto che la svendita del settore pubblico era l'unica soluzione. E lo tengano a mente anche quelli portoghesi, spagnoli ed italiani. In Islanda è stato riaffermato un principio fondamentale: è la volontà del popolo sovrano a determinare le sorti di una nazione, e questa deve prevalere su qualsiasi accordo o pretesa internazionale. Per questo nessuno racconta a gran voce la storia islandese.
Cosa accadrebbe se lo scoprissero tutti?

domenica 30 ottobre 2011

Thomas Jefferson

Il quotidiano Rinascita ricorda, nell'edizione del 27 ottobre, una celeberrima frase attribuita a Thomas Jefferson, terzo Presidente degli Stati Uniti, che da tempo non leggevo più e che avevo quasi dimenticato:

"Se gli Americani consentiranno mai a banche o privati di emettere il proprio denaro, prima con l'inflazione e poi con la deflazione, le banche e le grandi imprese che ne cresceranno attorno priveranno la gente delle loro proprietà finchè i loro figli si sveglieranno senza tetto nel continente conquistato dai loro padri. Il potere di emissione va tolto via dalle banche e restituito al popolo, al quale esso appartiene propriamente."

martedì 25 ottobre 2011

Segnalazione convegno

Sabato 29 ottobre alle ore 15 in Asti, Palazzo della Provincia (Salone Consiliare), si svolgerà la conferenza: “1869 – 1975. Un secolo di influenza dell’Italia nel Corno d’Africa”.
Relatori saranno Cristoforo Barberi e Alberto Costanzo, che illustreranno le premesse geopolitiche e le fasi storiche dell’influenza italiana nel Corno d’Africa dal 1869 (anno in cui fu acquistato uno scalo per le navi italiane in relazione all’apertura del canale di Suez) al 1975 (quando avvenne l’esodo della comunità italiana in seguito alle pressioni subite dopo la rivoluzione etiopica) e le caratteristiche della presenza italiana.
Commento musicale a cura di Matteo Ravizza e della Nuova Orchestra Zenit, che eseguirà brani degli anni Trenta e Quaranta.
L’iniziativa è promossa dall’assessorato alla cultura della Provincia di Asti, nell’ambito delle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia e del 50° anno dalla fondazione dell’Associazione Nazionale Reduci e Rimpatriati d’Africa.
Seguirà la visita guidata da Marida Faussone e Aris D’Anelli alla mostra “Omaggio a Giuseppe Pognante – Taccuino di Mogadiscio – Dipinti dal 1935 al 1939” presso la Fondazione Eugenio Guglielminetti, Palazzo Alfieri, corso Alfieri 375 – Asti.
Concluderà il pomeriggio un brindisi offerto dal Consorzio dell’Asti Spumante.
L’ingresso è libero.

domenica 23 ottobre 2011

Risparmiare...

Oggi, a Bruxelles, Berlusconi riceverà nuovi ordini in merito ai c.d. "tagli alla spesa pubblica".
Parlando di "costi della politica", merita ricordare che cosa si intendeva un secolo e mezzo or sono con tale espressione.
Dal sito www.lastampa.it:
Il Senato sabato 29 giugno 1861 respinge il progetto di legge che vorrebbe concedere viaggi gratuiti in treno ai parlamentari italiani. La proposta è del senatore bergamasco Francesco Roncalli, conte di Montorio. E’ un ricco benestante, che fin dal 1848 ha messo a rischio il patrimonio di famiglia per professare i suoi ideali liberali. Inviso all’Austria, ha patito l’esilio in Svizzera e poi a Torino. Conosce i problemi di chi è lontano da casa. Così vorrebbe agevolare i colleghi provenienti dalle province più remote del Paese, chiamati a frequentare a Torino le aule parlamentari. In effetti la sua legge non dispiace soprattutto a coloro che giungono dal Mezzogiorno. Sarebbe il primo privilegio che l’Italia unita concederebbe ai propri rappresentanti, per lo svolgimento delle loro mansioni. Ma la proposta è considerata invece inopportuna fra diversi senatori sabaudi. Fanno notare che tutti i membri del Senato sono nominati dal Re. Sovente sono titolari di patrimoni economici cospicui. E’ vero, ribattono i favorevoli, «ma alla Camera, che è elettiva, vi sono e vi potranno essere deputati rappresentanti di ceti meno abbienti, che meriterebbero di essere favoriti». «No - è la replica - servire il Paese è un privilegio, pari al dovere. Chi lo ha fatto in armi ha rischiato tutto, compresa la vita, senza altro chiedere. La mercede è da mercenari, non da patrioti, non sia mai». La proposta è bocciata, con 49 voti contro 30 favorevoli.

sabato 22 ottobre 2011

Importante segnalazione libraria

Opera importantissima, finalmente tradotta nella nostra lingua, pubblicata da Solfanelli.
Hulsmann non appartiene alla tradizione italiana di Ezra Pound e di Giacinto Auriti, segue altra scuola di pensiero, ma perviene a conclusioni del tutto compatibili con le nostre.
Un'altra spallata (e che spallata!) alle mistificazioni del sistema. 


Presentazione di Attilio Di Mattia


Jörg Guido Hülsmann

L'ETICA DELLA PRODUZIONE DI MONETA

a cura di Carmelo Ferlito

La moneta è onnipresente nella vita moderna, ma la produzione di moneta non è ancora soggetta ad alcuna valutazione morale. Questo gap riguarda soprattutto gli aspetti morali delle moderne istituzioni monetarie, in particolare le banche, le banche centrali e la moneta immateriale. Il presente lavoro colma la lacuna mediante un’analisi interdisciplinare che coinvolge la politica economica, la filosofia realista e la dottrina morale cattolica. Nell’ultima parte, inoltre, sono tracciate le linee evolutive della storia monetaria occidentale a partire dal XVII secolo. Il volume si conclude con un accorato appello rivolto all’esigenza di un’urgente riforma monetaria globale.

domenica 16 ottobre 2011

Il Grande Fratello avanza...

Articolo pubblicato sul sito italian.irib.it, ma la notizia è stata ripresa anche dai nostri media più diffusi (La Stampa, ecc.).
C'è da domandarsi, per un episodio che viene scoperto, quanti casi analoghi rimangano sconosciuti!

Germania: e’ ufficiale, un trojan per spiare i pc dei cittadini dal 2009

BERLINO - Le autorità della regione della Bavaria hanno ammesso che dal 2009 hanno fatto uso di un trojan, ossia un sistema di controllo nascosto, affinché le autorità di polizia e i servizi segreti potessero controllare i pc di tutti cittadini.
Secondo l’IRIB Le autorità però spiegano di aver operato nel nome dell’interesse nazionale e nel pieno rispetto delle normative. Ma la questione appare ormai fuori controllo almeno a livello comunicativo e la scoperta di un trojan di questo tipo è ormai un boomerang di grave portata per le autorità locali.
La scusa citata per questa grave violazione della privacy, come al solito, era quella di contrastare il terrorismo e la criminalità. Eppure, misure del genere, nella Repubblica federale tedesca, sono state ritenute incostituzionali dal Bundesverfassungsgericht, ossia dalla Consulta tedesca.
Ma il caso non è in alcun modo confinato alla sola Bavaria, anzi: la quasi totalità delle regioni federali ha ammesso di aver fatto uso del trojan. Occorre ricordare come grazie a questo tipo di intercettazione fosse possibile operare sul computer sorvegliato intercettando le chiamate di Skype o archiviando da remoto screenshot dello schermo.
Il caso è emerso con forza anche e soprattutto poiché tale comportamento fa a pugni con la più volte ribadita focalizzazione dell’autorità nazionale tedesca sulla protezione dei dati personali: le autorità dovranno rivedere i protocolli d’azione ed il tutto dovrà essere spiegato ad una cittadinanza che si è sentita tradita. Perché tutto ci si potrebbe attendere, tranne un sotterfugio non dichiarato. Una volta riportata la trasparenza sul problema, ed una volta chiarite le modalità d’azione, la questione potrà probabilmente spegnersi e le intercettazioni potranno presumibilmente continuare, ma ciò soltanto una volta ottenuto il supporto di una policy chiara e pubblica.

sabato 15 ottobre 2011

Indignati di tutto il mondo...

Nella giornata mondiale dell'indignazione, può essere utile la lettura di un articolo di alcuni giorni or sono, basato su un'intervista a Marco Tarchi, che ricavo dal sito www.lindro.it.
Limitandoci alle cose di casa nostra, un fatto è certo: se il movimento degli indignati italiani è e fa quel che in queste ore stiamo vedendo in televisione, in tutto questo di alternativo al sistema c'è proprio poco, e qualcuno dovrà anche chiedersi se la sua (ingenua) adesione non sia stata tradita...
 

Indignati di tutto il mondo...

La scia dell’indignazione è sempre più lunga. Mentre gli ’indignados’ di tutto il mondo si preparano ad unirsi simbolicamente sabato 15 ottobre, con una miriade di manifestazioni sparse per il globo, l’ondata di proteste nata all’ombra di Wall Street travalica i tradizionali confini, e dopo aver toccato le piazze di Spagna, Stati Uniti, Gran Bretagna, India, Israele, Cina, si prepara a sbarcare anche in Canada e in Australia, portando il coro d’indignazione a un livello di diffusione forse mai raggiunto in precedenza da realtà analoghe.
Merito della visibilità data dai media, certo. Ma l’informazione globalizzata da sola non basta a spiegare come mai il movimento degli indignados stia prendendo piede anche in Paesi fortemente industrializzati e culturalmente estranei a movimenti di protesta sistematici, quali sono Canada e Australia.
Ad aiutarci a capire questi fenomeni c’è il professor Marco Tarchi, docente di Scienza Politica, Comunicazione politica e Teoria politica presso l’Università di Firenze. “Innanzitutto bisognerebbe capire se si tratta di un fenomeno omogeneo o di un’etichetta veicolata secondo un ben noto stile imitativo, da sempre presente nel mondo dei movimenti, e che quindi può anche assumere forme che si collegano a obiettivi diversi. Personalmente rintraccio delle ragioni di carattere generale, che derivano dal cosiddetto ‘disincanto democratico’ tipico di questa fase storica: una generalizzata considerazione negativa cioè del ceto politico professionale, sempre più percepito come autoreferenziale e interessato solo alla propria promozione”.
Mentre negli Stati Uniti la lotta degli indignados entra nella sua quarta settimana, contagiando Los Angeles, Miami, Chicago, Detroit e Seattle, nel vicino Canada lo start-up è appena iniziato. A Toronto si susseguono gli incontri per organizzare la marcia del 15 ottobre presso il Financial District, che centinaia di persone prevedono di occupare: per loro l’appuntamento è al Berczy Park, tra Weelington e Victoria Street. Dando un’occhiata agli iscritti sulla pagina Facebook (quasi 5mila) s’intuisce che la partecipazione non dovrebbe mancare. Ma anche a Ottawa, Montrèal, Calgary, Victoria e altri centri della Nova Scotia si preparano manifestazioni analoghe. Senza dimenticare Vancouver, dove sempre il 15 ottobre avrà luogo un’occupazione a tempo indeterminato di fronte all’Art Gallery.
Potrebbe inoltre pesare sull’affluenza alle manifestazioni canadesi il rischio bancarotta del cruciale settore auto, scongiurato in extremis dal governo, ma che ha aperto la strada al rischio instabilità per il mondo bancario, all’opposto di quanto avvenuto al di sotto del confine.
Il Canada non è del tutto nuovo a forme organizzate di proteste: la più recente è quella relativa al G20, lo scorso anno. Ma sarebbe sbagliato fare analogie con movimenti tanto diffusi a casa nostra. “Fa riflettere la diffusione degli ‘indignados’ in Paesi diversi dalla Spagna o da quelli dell’Europa continentale – spiega TarchiIn Canada o in Australia non esiste infatti una cultura politica ideologizzata e frastagliata come la nostra, e lo stesso vale per il sistema dei partiti. Viene da pensare che esista quindi davvero un collante di base, all’interno del quale possano poi inserirsi spinte diverse”.
Parole confermate dal caso australiano. Dove ai temi classici degli indignados si stanno via via aggiungendo contenuti locali, o affini, come quelli a sfondo ecologico. Il filo comune sembra comunque essere la rabbia, concetto già usato per battezzare i primi giorni delle rivolte maghrebine. Una rabbia che si declina in modi un po’ diversi Paese per Paese, ma che ha dei tratti comuni nei metodi utilizzati, a partire dall’occupazione di luoghi simbolici e dall’uso dei social network. Così come avvenne per la cosiddetta primavera araba.
La protesta insomma si internazionalizza. E si internazionalizzano anche le critiche al movimento. Proprio in Australia sono in molti ad accusare gli indignati del nuovissimo continente di non avere obiettivi concreti, ma di stare solo protestando genericamente contro la disuguaglianza sociale ed economica. Come l’ex deputata liberale Sophie Mirabella, vicina alle forze industriali del Paese, che parla di “calamita per tutti i disillusi, anticapitalisti, sinistroidi del pianeta”.
Il punto è capire se tutto questo possa portare a ipotesi anche vaghe o vaghissime di modello alternativo o se siamo semplicemente di fronte a un’espressione di fastidio che non è però ben chiaro in cosa debba tradursi – riflette il professor Tarchi - Un conto è dire ‘la classe politica non è all’altezza della situazione’, un conto è fare tabula rasa, se si può fare, e creare dell’altro. Fin qui tutti i movimenti hanno storicamente fallito nel creare un circuito che esautorasse partiti”.
Intanto manifestazioni sono in programma sabato 15 ottobre nelle cinque più grandi città australiane: Sydney, Brisbane, Adelaide, Melbourne e Perth, affermano gli organizzatori locali su un sito web. Ad alimentare il dibattito sull’opportunità e il significato degli indignados in Australia vi è anche il rapporto della polizia locale, che segnala come pericolose le tecniche usate dai dimostranti, in particolare riguardo all’utilizzo del ’verde’: arrampicate sugli alberi, abbattimento di tronchi e sit-in sulle cime degli arbusti.
Al di là delle polemiche locali rimane il dato di una protesta in espansione, quantomeno sul versante meramente geografico. Secondo il professor Tarchi la genesi è da rintracciare nella crisi del 2008. “È stato allora che le banche e il sistema finanziario sono diventati bersaglio molto visibili di critiche feroci: teorie del complotto, accuse di poteri occulti, e così via. Indicare questo tipo di nemico e soprattutto la classe politica come connivente moltiplica la capacità di persuasione e mobilitazione a tutti i livelli fra gli scontenti. Vista la portate globale di quella crisi anche le proteste, come quella contro la speculazione e i politici conniventi, hanno avuto un’eco globale”. E c’è addirittura chi punta ad allargare la protesta in Giappone.

lunedì 10 ottobre 2011

Segnalazione spettacolo teatrale.

Per chi abita in zona, segnalo lo spettacolo teatrale "Pasolini: scene di incontri decisivi", di Giuseppe Puppo, in scena venerdì 14 ottobre alle ore 21 presso il Salone Tartara (P.za Castello) di Casale Monferrato.
L'occasione si presta per rileggere un brano, di assoluta attualità ancor oggi, che ben sintetizza il pensiero di Pier Paolo Pasolini:

Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è tale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno oramai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva. Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè - come dicevo - i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.
L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che “omologava” gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale “omologatore” che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo. Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?
No. O lo realizzano materialmente solo in parte, diventandone la caricatura, o non riescono a realizzarlo che in misura così minima da diventarne vittime. Frustrazione o addirittura ansia nevrotica sono ormai stati d’animo collettivi. Per esempio, i sottoproletari, fino a pochi anni fa, rispettavano la cultura e non si vergognavano della propria ignoranza. Anzi, erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso però del mistero della realtà. Guardavano con un certo disprezzo spavaldo i “figli di papà”, i piccoli borghesi, da cui si dissociavano, anche quando erano costretti a servirli. Adesso, al contrario, essi cominciano a vergognarsi della propria ignoranza: hanno abiurato dal proprio modello culturale (i giovanissimi non lo ricordano neanche più, l’hanno completamente perduto), e il nuovo modello che cercano di imitare non prevede l’analfabetismo e la rozzezza. I ragazzi sottoproletari - umiliati - cancellano nella loro carta d’identità il termine del loro mestiere, per sostituirlo con la qualifica di “studente”. Naturalmente, da quando hanno cominciato a vergognarsi della loro ignoranza, hanno cominciato anche a disprezzare la cultura (caratteristica piccolo borghese, che essi hanno subito acquisito per mimesi). Nel tempo stesso, il ragazzo piccolo borghese, nell’adeguarsi al modello “televisivo” - che, essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente naturale - diviene stranamente rozzo e infelice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio “uomo” che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali. La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto "mezzo tecnico", ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre.

domenica 9 ottobre 2011

Una speranza per Pedro Varela e per la libertà.

In materia di leggi liberticide e di psicoreati, la vicenda di Pedro Varela è una delle più eclatanti. Titolare della Libreria Europa a Barcellona, Varela è da anni oggetto di continue azioni giudiziarie (con tutto il corollario di carcerazioni, ordini di chiusura dell'attività, roghi di libri, ecc.) perchè all'interno della sua libreria si trovavano "anche" libri revisionisti, cioè libri di storia che affrontano quegli argomenti - nello specifico, la storia del Nazionalsocialismo e la storia della Shoa - su cui è proibito, in Spagna come in molti altri Paesi, fare ricerca storica.
La notizia che segue, tratta dal sito di informazione No Reporter, è davvero particolare, e segna una vittoria significativa nella difesa di Varela e, quindi, di tutte le vittime di queste leggi mostruose.

LA CORTE EUROPEA PROCESSA LA SPAGNA
La Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) ha annunciato martedì 4 di aver dichiarato parzialmente   ammissibile il ricorso presentato dal proprietario della libreria Europa di Barcellona, Pedro Varela, che finì in prigione lo scorso dicembre, per il reato di diffusione di idee genocide.
Tale domanda è stata dichiarata ricevibile il 20 settembre ed è stata  presentata da Varela tramite l'avvocato José Maria Ruiz Porta nel novembre 2009 dinanzi alla Corte di Strasburgo, dopo che la Corte costituzionale spagnola ha respinto il suo appello per la protezione.
Nella lettera invoca gli articoli 6.1 (Diritto ad un processo equo in  tempi ragionevoli), 7 (niente pena senza legge), 9 (libertà  di  pensiero, di coscienza e di religione), 10 (libertà  di espressione) e
13 (Diritto a un ricorso effettivo) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
I reclami di Varela si focalizzarono sul fatto di essere stato condannato per un crimine di diffusione di idee genocide  che non era nell'atto di accusa né nella condanna in primo grado, e nella durata di
un procedimento penale, iniziato nel 1996.
Inoltre, il proprietario di detta impresa disse che la sua condanna era "manifestamente infondata" in quanto il materiale venduto nella libreria faceva riferimento a dottrine negazioniste del genocidio, ma non alla sua giustificazione.
La Corte di Strasburgo ha deciso di ammettere la petizione per quanto riguarda gli articoli 6.1 - relativo alla condanna per un crimine del quale non era stato accusato -, 9 e 10 della Convenzione, e si pronuncerà  nei prossimi mesi con decisione o la condanna.

mercoledì 5 ottobre 2011

Crimini / 1

I frequentatori del blog si saranno già accorti della pagina "Crimini di guerra". Il tema è purtroppo inesauribile e sempre di attualità. 
Posto ora la presentazione di un recentissimo libro (un instant book, decisamente) di Paolo Sensini sulla guerra in Libia (Libia 2011, ed. Jaca Book). Non condivido tutto ciò che vi si legge, ma condivido assolutamente, come ho già scritto, l'illegittimità di questa guerra.

Il 2011 non è solo il 150° anniversario dell’unità d’Italia, ma è anche l’anno in cui ricorre un’altra celebrazione meno onorevole da festeggiare per i governanti del nostro paese: il centenario della prima guerra dell’Italia contro la Libia. Oggi come allora, lo Stato italiano muove in armi contro una nazione che nulla ci ha fatto. Il suo leader, Mu‘ammar Gheddafi, ricevuto fino pochi mesi addietro con tutti gli onori che si tributano al capo dello Stato di un paese amico, si è improvvisamente trasformato in «dittatore pazzo e sanguinario» da eliminare ricorrendo a qualsiasi espediente.
Un tradimento che ha dell’incredibile, ma che purtroppo rappresenta un Leitmotiv della nostra storia post-unitaria. Ritardata imitazione delle imprese delle più affermate potenze coloniali europee. Dopo aver ripercorso le fasi salienti dell’occupazione militare italiana (1911-1943) e della travagliata storia libica fino ai giorni nostri, Paolo Sensini, che ha preso parte a Tripoli ai lavori della Fact Finding Commission on the Current Events in Libya nei giorni immediatamente successivi all’inizio dei bombardamenti NATO, ricostruisce con dovizia tutte le fasi del conflitto e le vere ragioni sottese all’attacco contro la Libia. Il quadro reale che ne emerge, e che nessun media mainstream ha voluto raccontare alle opinioni pubbliche occidentali, è sconcertante. Le menzogne sulle «fosse comuni» e sui «10.000 morti», così come «i ribelli di Bengasi» fomentati dal fondamentalismo islamico e anche organizzati, armati e finanziati dalle potenze occidentali, sono serviti come pretesto per la Risoluzione ONU numero 1973 che ha dato il via all’intervento militare in Libia, mentre il mondo tace sul consistente miglioramento delle condizioni di vita del popolo libico da quando Gheddafi è stato alla guida del paese, unica realtà petrolifera mediorientale con una redistribuzione sociale della ricchezza.
La verità, ancora una volta, è che a tirare i fili di queste guerre per procura mascherate da «intervento umanitario» sono le grandi potenze occidentali, che vogliono continuare a mantenere i popoli dell’Africa nella schiavitù e nella miseria per impadronirsi di tutte le loro ricchezze, come fanno da secoli e stanno continuando a fare. Dopo l’Afghanistan e l’Iraq, quella in Libia è solo l’ennesima guerra neocoloniale dei giorni nostri

Crimini / 2

Ancora, ahimè, sui crimini di guerra.
Adesso qualcuno dirà che sono antiamericano. Tranquilli: non mi sono mai preso il mal di pancia di essere antiamericano o filoamericano.  
Semplicemente, ciò che è ingiusto, illecito e criminale, tale rimane indipendentemente dal fatto che venga da destra o sinistra, dall'alto o dal basso.

1944, napalm sull’Italia, di Roberto Beretta (dal quotidiano Avvenire)

Bombardate la Padania col napalm! Potrebbe sembrare un progetto di fantapolitica terroristica (con kamikaze islamici a bordo di aerei-cisterna dirottati dall’Afghanistan...) e invece è già avvenuto. È accaduto precisamente nell’inverno 1944, quando gli Alleati scatenarono l’operazione 'Pancake' a supporto delle operazioni di terra, all’epoca concentrate sul fiume Senio, in Romagna. «Nel giro di dieci giorni – scrive il ricercatore Andrea Villa – 700 bombardieri pesanti, 300 bombardieri medi e 270 caccia sganciarono 1161 tonnellate di bombe contro 74 obiettivi»; bombe che erano state riempite con «una miscela di recente invenzione, chiamata napalm, i cui effetti erano ancora tutti da verificare e da indagare». E infatti, con scrupolo molto professionale, i servizi segreti inglesi inviarono subito dopo alcune pattuglie di infiltrati, perché catturassero soldati tedeschi sopravvissuti ai bombardamenti: per interrogarli ed esaminarli.
(...)

Ma torniamo al napalm sull’Italia del Nord. La sostanza, inventata nel 1942, aveva la capacità di trasformare la benzina o il gasolio in una sorta di gelatina, che così non vaporizzava più e aveva la proprietà di bruciare molto più a lungo, essendo inoltre impermeabile all’acqua. Un’arma micidiale: i test, effettuati in America nel 1944, avevano constatato gli effetti devastanti della miscela, con cui si poteva carbonizzare una vasta area in pochissimi secondi e persino i mezzi corazzati non uscivano indenni dal fiume di fuoco.
Ma le prime prove furono effettuate direttamente sul campo, dai marines sbarcati a Salerno il 9 settembre 1943 ed equipaggiati con 15.000 lanciafiamme al napalm. L’anno dopo si passò appunto alle bombe, sganciate nel Nord Italia. Il 12 ottobre 1944 un’incursione di 60 apparecchi colpì i dintorni di Bologna e gli inglesi poterono catturare alcuni militari germanici feriti, i quali restituirono gli effetti della nuova invenzione: ogni bomba era in grado di incenerire qualunque cosa in un’area di 60 metri per 30, «un terribile fuoco che bruciava molto rapidamente. Tanti soldati erano rimasti gravemente ustionati ed era difficile respirare». L’efficacia era tale che gli Alleati pensarono di aumentare l’uso delle bombe incendiarie, il cui lato 'spettacolare' era inoltre in grado di terrorizzare i nemici e galvanizzare le proprie truppe, soprattutto nei teatri di guerra più difficili; per esempio durante la battaglia delle Ardenne usarono per la prima volta il napalm su una piccola città tedesca verso il confine col Belgio.
(...) «tale miscela tornò ad essere impiegata tra marzo e aprile 1945 su alcune zone dell’Emilia e del Nord-Est, dove ancora resistevano in maniera accanita i reparti tedeschi. Tra il 5 e il 6 aprile furono colpite le strade tra Novellara e Reggio Emlia e i dintorni di Viadana e Fidenza con 28 bombe da circa 100 kg l’una.
Nei giorni successivi altri 200 ordigni vennero sganciati su Rovereto, San Stino di Livenza e altri paesi nelle province di Verona, Venezia, Trieste». Poi la sperimentazione finì, e fortunatamente anche la guerra.

lunedì 3 ottobre 2011

Incultura politica di una classe dirigente

Non so se stia capitando anche a voi. Io, in questi ultimi giorni, chiacchierando con amici e conoscenti, vedo che sta aumentando con soprendente rapidità la diffusa convinzione che l'Italia sia ormai totalmente priva - tanto nella politica interna quanto in quella estera - di una guida e di un percorso da seguire. Chi siede alla barra del timone è considerato ormai dall'opinione pubblica un navigatore allo sbando che ha irrimediabilmente perduto la rotta. Proprio oggi pomeriggio ho sentito invocare anche per l'Italia una rivoluzione sul tipo delle "primavere arabe", chè tanto peggio di così!
Temo che non siano solo sfoghi e che, al contrario, si incomincino ad aprire gli occhi sulla realtà...
Questi pensieri mi richiamano alla mente un (eccellente come sempre, anche laddove meno condivisibile) editoriale di Tiberio Graziani apparso su un numero della rivista Eurasia dell'anno scorso. Ve ne propongo un breve stralcio.

Un Paese a sovranità limitata

Nonostante l’invidiabile posizione geografica e a dispetto dei caratteri che ne costituiscono la struttura morfologica, attualmente l’Italia non possiede una dottrina geopolitica.
Ciò è dovuto principalmente ai tre seguenti elementi: a) l’appartenenza dell’Italia alla sfera d’influenza statunitense (il cosiddetto sistema occidentale); b) la profonda crisi dell’identità nazionale; c) la scarsa cultura geopolitica delle sue classi dirigenti.
Il primo elemento, oltre a limitare la sovranità dello Stato italiano in molteplici ambiti, da quello militare a quello della politica estera, tanto per citare i più rilevanti per l’aspetto geopolitico, ne condiziona la politica e l’economia interne, le scelte strategiche in materia di energia, ricerca tecnologica e realizzazione di grandi infrastrutture e, non da ultimo, ne vincola persino le politiche nazionali di contrasto alla criminalità organizzata. L’Italia repubblicana, a causa delle note conseguenze del trattato di pace del 1947 ed anche in virtù dell’ambiguità ideologica del proprio dettato costituzionale, per il quale la sovranità apparterebbe ad una entità socioeconomica e culturale, peraltro mutevole e vagamente omogenea, il popolo, e non ad un soggetto politico ben definito come lo Stato, ha seguito la regola aurea del “realismo collaborazionista o claudicante”, ovverosia la rinuncia alla responsabilità di dirigere il proprio destino. Tale abdicazione situa l’Italia nella condizione di “subordinazione passiva” e lega le sue scelte strategiche alla “buona volontà dello Stato subordinante”.
Il secondo elemento inficia uno dei fattori necessari per la definizione di una coerente dottrina geopolitica. La crisi dell’identità italiana è dovuta a cause complesse che risalgono alla mal riuscita combinazione delle varie ideologie nazionali (di ispirazione cattolica, monarchica, liberale, socialista e laico-massonica) che hanno sostenuto il processo di unificazione dell’Italia, l’edificazione dello Stato unitario e, dopo la parentesi fascista, la realizzazione dell’attuale assetto repubblicano. La crisi dell’identità nazionale è dovuta, inoltre, anche alla mal digerita esperienza fascista e al trauma della perdita della guerra. La retorica romantica dello stato-nazione, il mito della nazione e, successivamente, quelli della resistenza e della “liberazione” non hanno reso certamente un buon servizio agli interessi dell’Italia, che, a centocinquanta anni dalla sua unificazione, è ancora alla ricerca della propria identità nazionale.
Il terzo elemento, infine, in parte ricollegabile per motivi storici ai precedenti, non permette di collocare la questione delle direttrici geopolitiche dell’Italia tra le priorità dell’agenda nazionale.