Limitandoci alle cose di casa nostra, un fatto è certo: se il movimento degli indignati italiani è e fa quel che in queste ore stiamo vedendo in televisione, in tutto questo di alternativo al sistema c'è proprio poco, e qualcuno dovrà anche chiedersi se la sua (ingenua) adesione non sia stata tradita...
Indignati di tutto il mondo...
La scia dell’indignazione è sempre più lunga. Mentre gli ’indignados’ di tutto il mondo si preparano ad unirsi simbolicamente sabato 15 ottobre, con una miriade di manifestazioni sparse per il globo, l’ondata di proteste nata all’ombra di Wall Street travalica i tradizionali confini, e dopo aver toccato le piazze di Spagna, Stati Uniti, Gran Bretagna, India, Israele, Cina, si prepara a sbarcare anche in Canada e in Australia, portando il coro d’indignazione a un livello di diffusione forse mai raggiunto in precedenza da realtà analoghe.
Merito della visibilità data dai media, certo. Ma l’informazione globalizzata da sola non basta a spiegare come mai il movimento degli indignados stia prendendo piede anche in Paesi fortemente industrializzati e culturalmente estranei a movimenti di protesta sistematici, quali sono Canada e Australia.
Ad aiutarci a capire questi fenomeni c’è il professor Marco Tarchi, docente di Scienza Politica, Comunicazione politica e Teoria politica presso l’Università di Firenze. “Innanzitutto bisognerebbe capire se si tratta di un fenomeno omogeneo o di un’etichetta veicolata secondo un ben noto stile imitativo, da sempre presente nel mondo dei movimenti, e che quindi può anche assumere forme che si collegano a obiettivi diversi. Personalmente rintraccio delle ragioni di carattere generale, che derivano dal cosiddetto ‘disincanto democratico’ tipico di questa fase storica: una generalizzata considerazione negativa cioè del ceto politico professionale, sempre più percepito come autoreferenziale e interessato solo alla propria promozione”.
Mentre negli Stati Uniti la lotta degli indignados entra nella sua quarta settimana, contagiando Los Angeles, Miami, Chicago, Detroit e Seattle, nel vicino Canada lo start-up è appena iniziato. A Toronto si susseguono gli incontri per organizzare la marcia del 15 ottobre presso il Financial District, che centinaia di persone prevedono di occupare: per loro l’appuntamento è al Berczy Park, tra Weelington e Victoria Street. Dando un’occhiata agli iscritti sulla pagina Facebook (quasi 5mila) s’intuisce che la partecipazione non dovrebbe mancare. Ma anche a Ottawa, Montrèal, Calgary, Victoria e altri centri della Nova Scotia si preparano manifestazioni analoghe. Senza dimenticare Vancouver, dove sempre il 15 ottobre avrà luogo un’occupazione a tempo indeterminato di fronte all’Art Gallery.
Potrebbe inoltre pesare sull’affluenza alle manifestazioni canadesi il rischio bancarotta del cruciale settore auto, scongiurato in extremis dal governo, ma che ha aperto la strada al rischio instabilità per il mondo bancario, all’opposto di quanto avvenuto al di sotto del confine.
Il Canada non è del tutto nuovo a forme organizzate di proteste: la più recente è quella relativa al G20, lo scorso anno. Ma sarebbe sbagliato fare analogie con movimenti tanto diffusi a casa nostra. “Fa riflettere la diffusione degli ‘indignados’ in Paesi diversi dalla Spagna o da quelli dell’Europa continentale – spiega Tarchi – In Canada o in Australia non esiste infatti una cultura politica ideologizzata e frastagliata come la nostra, e lo stesso vale per il sistema dei partiti. Viene da pensare che esista quindi davvero un collante di base, all’interno del quale possano poi inserirsi spinte diverse”.
Parole confermate dal caso australiano. Dove ai temi classici degli indignados si stanno via via aggiungendo contenuti locali, o affini, come quelli a sfondo ecologico. Il filo comune sembra comunque essere la rabbia, concetto già usato per battezzare i primi giorni delle rivolte maghrebine. Una rabbia che si declina in modi un po’ diversi Paese per Paese, ma che ha dei tratti comuni nei metodi utilizzati, a partire dall’occupazione di luoghi simbolici e dall’uso dei social network. Così come avvenne per la cosiddetta primavera araba.
La protesta insomma si internazionalizza. E si internazionalizzano anche le critiche al movimento. Proprio in Australia sono in molti ad accusare gli indignati del nuovissimo continente di non avere obiettivi concreti, ma di stare solo protestando genericamente contro la disuguaglianza sociale ed economica. Come l’ex deputata liberale Sophie Mirabella, vicina alle forze industriali del Paese, che parla di “calamita per tutti i disillusi, anticapitalisti, sinistroidi del pianeta”.
“Il punto è capire se tutto questo possa portare a ipotesi anche vaghe o vaghissime di modello alternativo o se siamo semplicemente di fronte a un’espressione di fastidio che non è però ben chiaro in cosa debba tradursi – riflette il professor Tarchi - Un conto è dire ‘la classe politica non è all’altezza della situazione’, un conto è fare tabula rasa, se si può fare, e creare dell’altro. Fin qui tutti i movimenti hanno storicamente fallito nel creare un circuito che esautorasse partiti”.
Intanto manifestazioni sono in programma sabato 15 ottobre nelle cinque più grandi città australiane: Sydney, Brisbane, Adelaide, Melbourne e Perth, affermano gli organizzatori locali su un sito web. Ad alimentare il dibattito sull’opportunità e il significato degli indignados in Australia vi è anche il rapporto della polizia locale, che segnala come pericolose le tecniche usate dai dimostranti, in particolare riguardo all’utilizzo del ’verde’: arrampicate sugli alberi, abbattimento di tronchi e sit-in sulle cime degli arbusti.
Al di là delle polemiche locali rimane il dato di una protesta in espansione, quantomeno sul versante meramente geografico. Secondo il professor Tarchi la genesi è da rintracciare nella crisi del 2008. “È stato allora che le banche e il sistema finanziario sono diventati bersaglio molto visibili di critiche feroci: teorie del complotto, accuse di poteri occulti, e così via. Indicare questo tipo di nemico e soprattutto la classe politica come connivente moltiplica la capacità di persuasione e mobilitazione a tutti i livelli fra gli scontenti. Vista la portate globale di quella crisi anche le proteste, come quella contro la speculazione e i politici conniventi, hanno avuto un’eco globale”. E c’è addirittura chi punta ad allargare la protesta in Giappone.
Merito della visibilità data dai media, certo. Ma l’informazione globalizzata da sola non basta a spiegare come mai il movimento degli indignados stia prendendo piede anche in Paesi fortemente industrializzati e culturalmente estranei a movimenti di protesta sistematici, quali sono Canada e Australia.
Ad aiutarci a capire questi fenomeni c’è il professor Marco Tarchi, docente di Scienza Politica, Comunicazione politica e Teoria politica presso l’Università di Firenze. “Innanzitutto bisognerebbe capire se si tratta di un fenomeno omogeneo o di un’etichetta veicolata secondo un ben noto stile imitativo, da sempre presente nel mondo dei movimenti, e che quindi può anche assumere forme che si collegano a obiettivi diversi. Personalmente rintraccio delle ragioni di carattere generale, che derivano dal cosiddetto ‘disincanto democratico’ tipico di questa fase storica: una generalizzata considerazione negativa cioè del ceto politico professionale, sempre più percepito come autoreferenziale e interessato solo alla propria promozione”.
Mentre negli Stati Uniti la lotta degli indignados entra nella sua quarta settimana, contagiando Los Angeles, Miami, Chicago, Detroit e Seattle, nel vicino Canada lo start-up è appena iniziato. A Toronto si susseguono gli incontri per organizzare la marcia del 15 ottobre presso il Financial District, che centinaia di persone prevedono di occupare: per loro l’appuntamento è al Berczy Park, tra Weelington e Victoria Street. Dando un’occhiata agli iscritti sulla pagina Facebook (quasi 5mila) s’intuisce che la partecipazione non dovrebbe mancare. Ma anche a Ottawa, Montrèal, Calgary, Victoria e altri centri della Nova Scotia si preparano manifestazioni analoghe. Senza dimenticare Vancouver, dove sempre il 15 ottobre avrà luogo un’occupazione a tempo indeterminato di fronte all’Art Gallery.
Potrebbe inoltre pesare sull’affluenza alle manifestazioni canadesi il rischio bancarotta del cruciale settore auto, scongiurato in extremis dal governo, ma che ha aperto la strada al rischio instabilità per il mondo bancario, all’opposto di quanto avvenuto al di sotto del confine.
Il Canada non è del tutto nuovo a forme organizzate di proteste: la più recente è quella relativa al G20, lo scorso anno. Ma sarebbe sbagliato fare analogie con movimenti tanto diffusi a casa nostra. “Fa riflettere la diffusione degli ‘indignados’ in Paesi diversi dalla Spagna o da quelli dell’Europa continentale – spiega Tarchi – In Canada o in Australia non esiste infatti una cultura politica ideologizzata e frastagliata come la nostra, e lo stesso vale per il sistema dei partiti. Viene da pensare che esista quindi davvero un collante di base, all’interno del quale possano poi inserirsi spinte diverse”.
Parole confermate dal caso australiano. Dove ai temi classici degli indignados si stanno via via aggiungendo contenuti locali, o affini, come quelli a sfondo ecologico. Il filo comune sembra comunque essere la rabbia, concetto già usato per battezzare i primi giorni delle rivolte maghrebine. Una rabbia che si declina in modi un po’ diversi Paese per Paese, ma che ha dei tratti comuni nei metodi utilizzati, a partire dall’occupazione di luoghi simbolici e dall’uso dei social network. Così come avvenne per la cosiddetta primavera araba.
La protesta insomma si internazionalizza. E si internazionalizzano anche le critiche al movimento. Proprio in Australia sono in molti ad accusare gli indignati del nuovissimo continente di non avere obiettivi concreti, ma di stare solo protestando genericamente contro la disuguaglianza sociale ed economica. Come l’ex deputata liberale Sophie Mirabella, vicina alle forze industriali del Paese, che parla di “calamita per tutti i disillusi, anticapitalisti, sinistroidi del pianeta”.
“Il punto è capire se tutto questo possa portare a ipotesi anche vaghe o vaghissime di modello alternativo o se siamo semplicemente di fronte a un’espressione di fastidio che non è però ben chiaro in cosa debba tradursi – riflette il professor Tarchi - Un conto è dire ‘la classe politica non è all’altezza della situazione’, un conto è fare tabula rasa, se si può fare, e creare dell’altro. Fin qui tutti i movimenti hanno storicamente fallito nel creare un circuito che esautorasse partiti”.
Intanto manifestazioni sono in programma sabato 15 ottobre nelle cinque più grandi città australiane: Sydney, Brisbane, Adelaide, Melbourne e Perth, affermano gli organizzatori locali su un sito web. Ad alimentare il dibattito sull’opportunità e il significato degli indignados in Australia vi è anche il rapporto della polizia locale, che segnala come pericolose le tecniche usate dai dimostranti, in particolare riguardo all’utilizzo del ’verde’: arrampicate sugli alberi, abbattimento di tronchi e sit-in sulle cime degli arbusti.
Al di là delle polemiche locali rimane il dato di una protesta in espansione, quantomeno sul versante meramente geografico. Secondo il professor Tarchi la genesi è da rintracciare nella crisi del 2008. “È stato allora che le banche e il sistema finanziario sono diventati bersaglio molto visibili di critiche feroci: teorie del complotto, accuse di poteri occulti, e così via. Indicare questo tipo di nemico e soprattutto la classe politica come connivente moltiplica la capacità di persuasione e mobilitazione a tutti i livelli fra gli scontenti. Vista la portate globale di quella crisi anche le proteste, come quella contro la speculazione e i politici conniventi, hanno avuto un’eco globale”. E c’è addirittura chi punta ad allargare la protesta in Giappone.
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