venerdì 30 agosto 2013

Siria: il bluff dell'Occidente.

Dopo il sintetico commento di mercoledì, un'analisi più approfondita sulla situazione siriana nell'ottica geopolitica (che comunque, ricordiamolo, non è l'unica ottica).
Ritorneremo sull'argomento.
Dal sito della rivista Eurasia:

SIRIA: IL BLUFF DELL’OCCIDENTE RISCHIA DI TRASCINARE IL MONDO NEL BARATRO
di Stefano Vernole

In queste ore drammatiche il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama deve decidere se concedere il via libera al piano di attacco elaborato dagli strateghi militari del Pentagono.
Questi ultimi, tutt’altro che convinti della necessità di entrare in guerra, hanno infatti predisposto un tipo di intervento (condotto con il lancio di missili Cruise dalle portaerei statunitensi) estremamente limitato, da esaurirsi nel giro di tre giorni e a zero perdite per i propri soldati.
Sembra in effetti la riedizione della guerra del Kosovo (1999) richiamata da alcuni analisti in questi giorni, in quanto anche allora l’ex capo della Casa Bianca Bill Clinton si illuse che dopo due o tre giorni di bombardamenti aerei della NATO l’ex Presidente serbo Slobodan Milosevic si sarebbe arreso.
Quell’aggressione, condotta col pretesto delle “motivazioni umanitarie” e senza il via libera delle Nazioni Unite, durò in realtà 78 giorni e produsse alcuni effetti destinati a cambiare la geopolitica mondiale.
Le ricadute più rilevanti si manifestarono paradossalmente in Russia (che vide nella disgregazione della ex Jugoslavia lo specchio di quanto le sarebbe accaduto a breve se non avesse reagito), dove i servizi di sicurezza decisero nello spazio di pochi mesi di liquidare il corrotto Boris Eltsin (da tempo asservito alle potenze occidentali) e di condurre alla guida del Cremlino Vladimir Putin, un Presidente che le avrebbe restituito orgoglio e dignità.
Da questo punto di vista si può dire che il sacrificio dei Serbi servì alla salvezza dei Russi.
Se quindi l’occupazione del Kosovo e Metohija servì agli USA quale nuovo trampolino di lancio verso il Mar Caspio e il Vicino e Medio Oriente, fu però proprio allora che iniziò quella strategia di riscossa delle potenze eurasiatiche che ha mutato profondamente gli equilibri geopolitici del pianeta.
I tentativi di spezzare l’alleanza tra Mosca e Pechino sono risultati vani e la resistenza della Siria di Assad negli ultimi due anni è uno dei tanti fattori che gioca a suo favore.
Oggi, sotto la spinta del rinnovato attivismo saudita e in particolare del suo capo dei servizi segreti Bandar Bin Sultan, gli Stati Uniti si trovano a giocare una partita estremamente complessa e pericolosa.
Complessa perché è chiaro che la rielezione di Obama è stata resa possibile solo dopo la sua accettazione dell’antico progetto bushiano, che prevede l’edificazione del Nuovo (Grande) Medio Oriente sotto controllo nordamericano.
Fallita la carta “morbida” giocata con le “rivoluzioni arabe”, non rimaneva all’Amministrazione statunitense che riaggrapparsi alla sua unica certezza, quella costituita da un apparato militare che – nonostante il declino strategico statunitense – continua a rimanere imponente.
Ecco quindi la guerra alla Libia di Gheddafi, l’aggressione alla Siria di Assad (delegata temporaneamente da Washington ai suoi alleati regionali), i colpi di stato e la destabilizzazione dei paesi africani come la Somalia, la Costa D’Avorio, il Mali e il Sudan per fronteggiare l’avanzata cinese.
Con la prospettiva finale di colpire e mutare l’Iran, con le buone e con le cattive maniere, per controllarne le risorse energetiche e stritolare le potenze eurasiatiche rendendole dipendenti dall’acquisto di dollari ormai “carta straccia”.
Partita complessa anche per motivi strettamente “tecnici”.
Tutte le dispendiose guerre condotte dal 1991 ad oggi non hanno portato a Washington i frutti sperati.
Che si tratti dell’Iraq, dove gli sciiti al governo non solo parteggiano per la Siria di Assad ma privilegiano Cina ed India nelle forniture di petrolio, che si tratti dell’Afghanistan dove il Presidente Karzai non vede l’ora di liberarsi del controllo statunitense per rivolgersi a Pechino e a Nuova Delhi, che si tratti della piccola Serbia o addirittura dell’Egitto che tornano a guardare verso Mosca, questi conflitti hanno esaurito la spinta propulsiva degli Stati Uniti e dimostrato la loro inadeguatezza quali leader mondiali.
L’economia USA si trova alle prese con una nuova scadenza che il prossimo mese la costringerà ad innalzare a 17.000 miliardi di dollari il tetto del proprio debito per evitare il fallimento del paese, mentre le principali banche nordamericane vengono declassate dalle stesse agenzie di rating statunitensi e la prospettiva di un ulteriore “settembre 2008” si avvicina pericolosamente.
Ma la partita che Obama si appresta a giocare è anche molto pericolosa.
Se questi probabili due-tre giorni di attacchi missilistici sulla Siria dovessero avere luogo, non è invece facilmente prevedibile quanto potrà accadere.
Il calcolo statunitense è riassumibile nella volontà e nella prospettiva, tutta mediatica, di voler riaffermare al mondo che gli Stati Uniti con i loro alleati sono ancora la guida del pianeta e che la sfida lanciata da Mosca e da Pechino – manifestatasi platealmente con il “caso Snowden” – può essere vinta.
Gli analisti del Council on Foreign Relations e del Pentagono ritengono che la Siria non disponga di misure di reazione efficaci e che dopo questa lezione “morale” pian piano il governo di Assad verrà sgretolato, subendo l’analoga sorte di quello guidato da Milosevic (deposto un anno dopo la fine dell’intervento militare).
Questo calcolo dimentica però il mutamento della situazione geopolitica rispetto al 1999; se allora la Serbia si trovava isolata e venne difesa solo diplomaticamente da Russia e Cina, oggi la Siria di Assad si trova in una situazione decisamente più favorevole.
Teheran, innanzitutto, è legata a Damasco da un’alleanza di carattere militare che in caso di aggressione statunitense si estenderebbe automaticamente anche a Hizbollah in Libano.
Israele, in particolare, si troverebbe esposto ad una possibile rappresaglia iraniana e quello che è stato progettato per essere un intervento limitato rischierebbe di trasformarsi in una guerra regionale dalle conseguenze imprevedibili.
Tel Aviv, che non dimentica la lezione ricevuta in Libano nel 2006 e la figuraccia rimediata a Gaza nel 2009, desidererebbe forse intraprendere una nuova avventura ma diverrebbe l’agnello sacrificale dell’imperialismo statunitense.
Difficilmente Turchia e Arabia Saudita, che a parole smaniano di venire alle mani con la Siria, potrebbero partecipare ad una coalizione a fianco dei soldati di Tel Aviv.
Le rappresaglie di Russia e Cina nei loro confronti, poi, potrebbero essere non solo economiche ma anche militari, e sia ad Ankara che a Riyad sanno bene come la loro alleanza con gli Stati Uniti non rivesta più per Washington un carattere strategico.
L’umiliazione subita dalla Georgia nel 2008 è ancora un vivo ricordo e solo dei disperati come Hollande e Cameron possono sperare di far dimenticare i propri guai interni con un nuovo conflitto.
Ecco quindi che Obama si trova alle prese con un dilemma tutt’altro che facile: essere un nuovo Gorbaciov e traghettare in maniera pacifica l’inevitabile ridimensionamento statunitense o sognare di essere un nuovo Roosevelt, nell’illusione che una rinnovata “economia di guerra” possa rilanciare un paese ormai industrialmente destrutturato e finanziariamente fallito.
Ai siriani il difficile e gravoso compito di resistere, per consentire l’emergere definitivo del nuovo sistema multipolare non più a guida angloamericana e nel quale le controversie internazionali potrebbero non essere più risolte a colpi di cannoniere.

mercoledì 28 agosto 2013

Siria, ci siamo?!

Il web è alluvionato da commenti sulla situazione siriana.
Ne propongo uno tratto da una nota testata. Concilia molto bene chiarezza e sintesi.
Per ulteriori considerazioni, anche di ordine tattico (guerra alla Siria con i missili... mah... non mi torna molto...), ci aggiorniamo ai prossimi giorni.


Un uomo sospettato di voler compiere un omicidio, per metterlo in pratica sceglie il momento in cui gli entra in casa la polizia. Lo stesso avrebbe fatto il presidente Assad, sferrando l’attacco chimico nel momento in cui arrivano gli ispettori Onu per effettuare l’indagine sull’uso di armi chimiche in Siria. Le «prove» sono state esibite dai «ribelli», il cui centro propaganda a Istanbul, organizzato dal Dipartimento di stato Usa, confeziona i video forniti ai media mondiali.
Avendo ormai «ben pochi dubbi» che è Assad il colpevole e ritenendo «tardiva per essere credibile» l’indagine Onu, il presidente Obama sta valutando una «risposta» analoga a quella del Kosovo, ossia alla guerra aerea lanciata senza mandato Onu dalla Nato nel 1999 contro la Iugoslavia, accusata di «pulizia etnica» in Kosovo.
A tal fine il Pentagono ha convocato in Giordania, il 25-27 agosto, i capi di stato maggiore di Canada, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Turchia, Arabia Saudita e Qatar.
In Giordania gli Usa hanno dislocato caccia F-16, missili terra-aria Patriot e circa 1.000 militari, che addestrano gruppi armati per la «guerra coperta» in Siria. Secondo informazioni raccolte da «Le Figaro», un contingente di 300 uomini, «senza dubbio spalleggiato da commandos israeliani», è stato infiltrato dalla Giordania in Siria il 17 agosto, seguito da un altro due giorni dopo. Si aggiungono ai molti già addestrati in Turchia. In maggioranza non-siriani, provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri paesi, appartenenti in genere a gruppi islamici tra cui alcuni classificati a Washington come terroristi. Riforniti di armi, provenienti anche dalla Croazia, attraverso una rete internazionale organizzata dalla Cia.
Sotto la cappa della «guerra coperta» niente di più facile che dotare qualche gruppo di testate chimiche, da lanciare con razzi sui civili per poi filmare la strage attribuendola alle forze governative. Creando così il casus belli che giustifichi una ulteriore escalation, fino alla guerra aerea, visto che la guerra condotta all’interno non riesce a far crollare lo stato siriano.
Tale opzione, motivata dall’imposizione di una «no-fly zone», prevede un massiccio lancio di missili cruise, oltre 70 solo nella prima notte, unito a ondate di aerei che sganciano bombe a guida satellitare restando fuori dallo spazio aereo siriano. I preparativi sono iniziati non dopo, ma prima del presunto attacco chimico. A luglio è stato dispiegato il gruppo d’attacco della portaerei Harry Truman, comprendente due incrociatori e due cacciatorpediniere lanciamissili con a bordo unità dei marines, che opera nelle aree della Sesta e Quinta Flotta. Un altro cacciatorpediniere lanciamissili, il Mahan, invece di rientrare in Virginia, è rimasto nel Mediterraneo agli ordini della Sesta flotta.
Solo la U.S. Navy ha quindi già schierate cinque unità navali, più alcuni sottomarini, in grado di lanciare sulla Siria centinaia di missili cruise. I cacciabombardieri sono pronti al decollo anche dalle basi in Italia e in Medio Oriente. Alle forze aeronavali Usa si unirebbero, sempre sotto comando del Pentagono, quelle dei partecipanti alla riunione in Giordania (Italia compresa) e di altri paesi.
La Siria dispone però di un potenziale militare che non avevano la Iugoslavia e la Libia, tra cui oltre 600 istallazioni antiaeree e missili con gittata fino a 300 km. La guerra si estenderebbe al Libano e ad altri paesi mediorientali, già coinvolti, e complicherebbe ulteriormente i rapporti di Washington con Mosca.
Su questo stanno riflettendo a Washington, mentre a Roma attendono gli ordini.
Manlio Dinucci
(Il Manifesto, 27 agosto 2013)


martedì 6 agosto 2013

Tu chiamala (se vuoi) "integrazione" europea

Condivido, con Gabriele Gruppo, molte idee. In tema di integrazione europea, però, a volte abbiamo visioni diverse. Tuttavia, faccio fatica a trovare una sola frase di questo suo articolo da cui possa dissociarmi.
Dal sito wordpress.thule-italia.net:

Tu chiamala (se vuoi) “integrazione” europea

La segnalazione di un nostro contatto, relativa alla tematica del processo d’integrazione economica e monetaria europea (UEM), ci ha spinto a fare un piccolo bilancio su quella che è la connessione tra tale processo, la crisi dei debiti sovrani di numerosi Stati del Vecchio Continente, e la crisi economica mondiale. In questi anni difficili siamo stati testimoni e cronisti della discesa agli inferi in cui la speculazione apolide ha spinto i famigerati PIIGS; quella poco invidiabile accozzaglia di nazioni europee che, per motivi differenti, hanno dovuto confrontarsi con il “lato oscuro” della finanza, e con l’amara scoperta di dover rinunciare de facto alla propria sovranità, pur di essere “salvate” dal resto dell’Unione. Così come abbiamo assistito al decadimento di ogni barriera di decenza, da parte della classe politica al potere, nel dimostrare palesemente la propria incompetenza e pavidità nell’affrontare chi, realmente, ha provocato il disastro. Proprio nella giornata odierna, il burattino governativo di turno, Enrico Letta, ha esternato tutta la sua fiducia nella possibilità che l’Italia possa a breve “uscire dalla crisi economica” in cui versa ormai dal 2008, e che sta impietosamente distruggendo le componenti organiche integrate del tessuto produttivo nazionale, facendo diventare i distretti economici dello stivale una sorta di obitorio imprenditoriale ed occupazionale. Il “come” uscire dalla crisi Letta non lo spiega, preferendo di gran lunga le solite giaculatorie sulle risorse che serberebbe l’Italia nei momenti difficili, e sull’energia che gli italiani possono sviluppare per affrontare questa congiuntura storico/economica avversa. Solita solfa insomma. Mentre l’Italia vive questa stagione all’insegna della più pesante incertezza sul proprio futuro, in sede UE, e negli organismi più vitali ad essa collegati, si pianifica ormai da tempo la messa in sicurezza di quelle bombe ad orologeria finanziaria, che si trovano nella pancia di numerosi Stati, in particolare quelli mediterranei, in nome della sacra stabilità dell’euro. Il Presidente della BCE Mario Draghi, più volte incensato dalla superficiale orchestra mediatica nostrana, ha utilizzato tutto il suo talento di banchiere, e i suoi solidissimi appoggi con il mondo finanziario apolide, per creare i presupposti di quell’unione economica che dovrà fungere da volano per l’integrazione politica del continente. In molti suppongono, e noi eravamo tra questi, che sia impossibile creare uno Stato partendo dall’economia e dalla divisa valutaria. Sbagliato. Attraverso la crisi dei debiti sovrani e l’incalzare degli eventi, circa il rischio d’implosione della moneta unica, gli Stati più deboli, e maggiormente esposti al rischio/default, hanno ceduto a tamburo battente gran parte della loro indipendenza sostanziale agli organismi sovranazionali dell’UE; come la Banca Centrale, appunto, il Consiglio Europeo, la Commissione Europea, e il famigerato Fondo Monetario Internazionale, che ha accompagnato con la sua sapiente longa manus tutto il processo di destabilizzazione del Vecchio Continente. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, o quasi. Infatti, l’Europa si sta sviluppando non come uno Stato/nazione, ma come un’azienda privata politicizzata, dove esistono gerarchie ben precise, priorità ben precise e sovranità ben precise. Peccato che nulla di tutto ciò andrà a beneficio degli europei, quanto alle oligarchie che manovrano le strutture dell’UE, orientandone la politica e i processi di riorganizzazione economica. Scordatevi che la pagliacciata rappresentata dal Parlamento Europeo possa avere un valore provante la democraticità dell’UE. Tale assise parlamentare è solamente un foro boario, privo di potere decisionale, specchio fedele di tutti i parlamenti democraticamente eletti, il cui ruolo è quello ormai puramente simbolico. L’unione politica, da molti ritenuta non ancora compiuta, è in realtà già avvenuta, solamente che nessuno si è preso il disturbo di spiegare ai popoli europei il “come” sia avvenuta.

giovedì 1 agosto 2013

GRAZIE, PRESIDENTE DOTT. ANTONIO ESPOSITO!

Il nostro blog è rimasto silente per un mese. Mi è sembrata un'inattività doverosa, che ha rispecchiato fedelmente il NULLA (morale, sociale, etico, economico, culturale, politico) di questa Italia lettiana. Questa sera, però, non posso tacere. Dal profondo del cuore, dopo le notizie riferite poco fa dai media, mi sgorga un sentimento di gratitudine verso il Presidente Dott. Antonio Esposito e verso gli altri componenti del Collegio giudicante della Suprema Corte che poco fa hanno pronunciato la sentenza di condanna di Silvio Berlusconi. Ebbene sì, lo ammetto: nei giorni scorsi avevo dubitato. Avevo sinceramente temuto che la fama, la popolarità, la ricchezza, il potere di Berlusconi potessero incidere sull'operato della Cassazione, inducendola ad riservargli un trattamento diverso rispetto a quello a cui sono destinati tutti i sudditi italiani. Mi ero detto: vuoi vedere che, solo perchè è Berlusconi, va a finire che valutano le prove... che ascoltano le argomentazioni dei difensori... che rispettano i principi di diritto scritti sui libri del primo anno dell'università... che gli riconoscono diritti e garanzie... Avevo temuto - lo confesso - che la legge potesse non essere uguale per tutti, che un ricorso per Cassazione di Berlusconi potesse avere - solo perchè di Berlusconi - un esito diverso dal sicuro rigetto a cui sarebbe immancabilmente destinato un qualunque ricorso presentato da uno di noi. Ma adesso devo fare ammenda di questi cattivi pensieri: le parole con cui il Presidente Dott. Antonio Esposito ha pronunciato la sentenza spazzano via ogni dubbio e confermano che la presunzione di colpevolezza vale indistintamente per tutti i sudditi, che la giustizia ha (senza eccezioni legate al nome dell'imputato) il solo scopo di perseguire la cieca vendetta dello Stato burocratico verso il suo nemico naturale (che come tutti sappiamo è il singolo cittadino), che il ruolo della difesa è perfettamente azzerato per Mario Rossi come per Silvio Berlusconi, che tutti i processi (quello del verduriere dell'angolo tanto quanto quello del primo leader politico del Paese) vengono decisi, non dalle prove, ma dalle enunciazioni di principio del pubblico ministero. Da questa sera mi sento più sollevato. Ora so con certezza che siamo tutti uguali. E ho trovato anche rassicurante la spietata crudeltà ostentata da Gad Lerner su RaiNews24. Uguale alle rozze, ignoranti, disumane cattiverie che sento al bar o dal barbiere quando si legge sul giornale locale che un ragazzino si è beccato tre o quettro anni perchè aveva in tasca un pezzo di fumo... Che bello, ciò che è in alto come ciò che è in basso, senza differenze, siamo tutti uguali! E allora grazie, Presidente Dott. Antonio Esposito! Grazie anche per avere definito Berlusconi, in sentenza, come "il Berlusconi": il Suo disprezzo, manifestato da quell'articolo, ci fa sentire tutti piccoli piccoli, tutti vermicelli. Tutti sudditi di fronte allo strapotere della burocrazia statale che Lei ha servito e onorato senza favoritismi. Grazie!