La notizia era già circolata qualche tempo fa. Al giornalista Federico Cenci, ora, il merito di commentarla adeguatamente.
Dal sito www.ilbersaglio.info:
A partire dall’anno accademico 2014-2015 al Politecnico di Milano si terranno solo corsi in lingua inglese. Il rettore Giovanni Azzone spiega che la scelta è votata ad offrire “un’apertura culturale internazionale, perché un ragazzo che si affaccia sul mondo del lavoro deve abituarsi a lavorare in contesti internazionali”. La notizia è passata un po’ sottotraccia, nessuna polemica né dibattiti. Segno che il nostro Paese già si trova in una fase di cambiamento radicale, tale da rendere non particolarmente clamorosa - alle orecchie dell’opinione pubblica - una notizia così singolare. Evidentemente gli italiani caldeggiano questa presunta necessità, evocata dal professor Azzone, di “aprirsi ad una cultura internazionale”, a costo addirittura di rinunciare alla propria. Già, perché una così palese bocciatura della nostra lingua da parte di uno dei più prestigiosi atenei del Paese rappresenta una disastrosa retrocessione della cultura italiana. Se in casa propria la lingua madre viene ritenuta inadatta alla formazione della futura classe dirigente, si nega la capacità della nostra cultura di rispondere alle nuove esigenze globali. Sradicare l’italiano dai corsi universitari di materie tecnico-scientifiche significa considerare la nostra forma mentis - dalla quale nasce il modo di comunicare, il linguaggio - un ostacolo all’apprendimento di nozioni oggi determinanti le dinamiche economiche e politiche. Una forma di razzismo culturale edulcorata dall’esigenza di stare “al passo coi tempi”. Curioso che questa notizia arrivi a breve distanza di tempo dalla fine delle celebrazioni per la ricorrenza dell’unità d’Italia, durante le quali il presidente Napolitano ha solennemente affermato che la lingua italiana si colloca “tra i fattori portanti dell’unità nazionale” e che, dunque, “deve stare al centro del percorso formativo del sistema della conoscenza”.
Stando a come uno dei maggiori atenei pubblici d’Italia intende riformarsi dal 2014, non si direbbe che le parole pronunciate dal presidente della Repubblica abbiano goduto di grossa considerazione. Del resto, la retorica è un bell’esercizio oratorio che spesso resta tale; mentre i provvedimenti concreti vengono sovente accompagnati da più freddi comunicati ma almeno sortiscono effetti reali. In questo senso è possibile riferirsi a ciò che è avvenuto più di un anno fa in Cina, Paese per altro profondamente inserito nel contesto scaturito dalla globalizzazione. Il governo di Pechino ha bandito l’uso della lingua inglese nei media nazionali. L’Agenzia Stampa di Stato ha motivato la battaglia contro l’allogeno idioma anglosassone sostenendo che il suo abuso “mina la purezza della lingua nazionale” e “distrugge uno sviluppo linguistico e culturale sano e armonioso, ed esercita un influsso negativo sulla società”. Chiarisce inoltre l’Agenzia Stampa di Stato che sarà possibile utilizzare parole straniere solo in casi straordinari, salvo fornire un’adeguata traduzione o spiegazione in cinese. Previste, per quanti contravvengono a quanto stabilito, sanzioni amministrative dall’ammontare pecuniario non specificato.
Qualcuno ha definito parodistica tale severa presa di posizione a difesa della purezza della lingua cinese, qualcun altro la ritiene una battaglia obsoleta e persa in partenza. Tuttavia non mancano difensori di questo segnale di resistenza culturale all’appiattimento. Tra loro, l’Ambasciatore Bruno Bottai, presidente della “Società Dante Alighieri”, associazione che si occupa dell’insegnamento e della difesa della lingua e della cultura italiane. “Dai cinesi ci giunge un vero e proprio esempio di coscienza nazionale - affermò il Presidente della “Dante” -: tutti noi riconosciamo l’indiscusso valore dell’inglese quale idioma veicolare, ma consideriamo comunque irrinunciabili la difesa e la promozione della nostra lingua, simbolo di identità ed elemento unificatore dell’Italia. Per questo condividiamo in pieno la presa di posizione della Cina, custode di una lingua di millenaria cultura”. Una posizione di retroguardia rispetto a quell’apertura alla cultura internazionale di cui si farà presto alfiere il Politecnico di Milano? Forse è meglio definirla così: parole di buon senso - prima ancora che di amor patrio - pronunciate da un illustre rappresentante di quel che resta dell’Italia.
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