Più volte, nel passato, mi sono occupato del gravissimo problema delle c.d. "leggi liberticide", cioè di quelle fitta rete di norme penali, sviluppatasi in quasi tutti gli Stati europei (e non solo europei) negli ultimi trent'anni, che persegue l'obiettivo di punire penalmente la semplice manifestazione di pensieri non conformi a standard prefissati.
In quasi tutti gli Stati (e comunque in tutti quelli europei, non appena le singole legislazioni si saranno uniformate come impone l'U.E.) tra i temi-tabù compare la storia del Nazionalsocialismo, della II Guerra Mondiale e dell'Olocausto: temi su cui, di conseguenza, è illecito svolgere ricerca storica.
E' un argomento su cui tornerò presto, che presenta però il pregio di essere abbastanza noto anche se i media si guardano bene dal dare notizia dell'interminabile elenco di condanne inflitte a storici e ricercatori: ad esempio, proprio pochi giorni fa è stata la volta, davanti al Tribunale di Regensburg, di Gerd Walther, che si era occupato dell'Olocausto da un punto di vista medico-legale.
Meno noti invece (anzi totalmente sconosciuti all'opinione pubblica) sono gli sconcertanti meccanismi logico-giuridici adottati dei tribunali per affermare la responsabilità degli appartenenti all'esercito tedesco imputati di avere partecipato alle attività di sterminio degli ebrei. L'ultima sentenza, pronunciata dal Tribunale di Monaco di Baviera l'11 maggio, riguarda il caso di John Demjanjuk, e va ben oltre l'aberrante assunto "non poteva non sapere" per arrivare allo sconvolgente "se c'era è responsabile di quel che accadeva".
Così il sito di informazione ilPost commenta la notizia:
John Demjanjuk è stato condannato
Il 91enne ucraino è stato dichiarato colpevole per aver partecipato all'omicidio di circa 28.000 prigionieri di un lager nazista
Dopo un processo durato diciotto mesi, John Demjanjuk è stato dichiarato colpevole a Monaco di Baviera, per aver collaborato all’uccisione di circa 28.000 persone nel periodo in cui è stato una guardia reclutata dalle SS nel campo di concentramento di Sobibor, in Polonia. La pena è di cinque anni di carcere (l’accusa ne aveva richiesti sei) e la difesa ha già annunciato che ricorrerà in appello.
Demjanjuk non era accusato di alcun crimine specifico e non ci sono testimoni del fatto che abbia mai ucciso nessuno. Ma l’argomento dell’accusa era che, una volta dimostrata la sua presenza a Sobibor, la sua collaborazione agli omicidi era da ritenersi inevitabile. È la prima volta che un argomento di questo tipo viene usato in un tribunale tedesco, e un legale delle famiglie delle vittime di Sobibor aveva dichiarato prima del verdetto all’agenzia Associated Press:
«Se viene confermata la tesi dell’accusa, e se viene emesso un verdetto per concorso in omicidio perché una persona era guardia in un campo dove molte altre sono state uccise, potrebbe essere l’inizio di una nuova ondata di molti altri procedimenti simili».
Demjanjuk aveva assistito alle fasi finali del processo disteso su un letto e assistito da un interprete. Quando gli è stato chiesto se intendeva rilasciare una dichiarazione finale, ha risposto solamente con un “no”. L’uomo ha sempre negato di essere stato una guardia in un campo di concentramento e ha detto di aver passato gran parte della guerra come prigioniero di guerra dei tedeschi.
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