Un articolo di Marcello Veneziani, apparso su Il Giornale del 24 settembre, ci offre l'opportunità di riscoprirne uno: Enzo Erra.
Quel fascista scomodo che nel dopoguerra sognò un’altra destra
Enzo Erra non sognava affatto una destra antimoderna, come ha scritto ieri il Corriere della Sera. Enzo Erra sognava piuttosto un’altra modernità, più spirituale ed eroica. Non era antimoderno, più semplicemente era fascista, a babbo morto. Appartenne a quella generazione che per ragioni anagrafiche del fascismo non visse la storia ma solo il crollo, si arruolò pochi giorni prima della fine, non ebbe vantaggi né carriera ma solo danni, non si macchiò di colpe o delitti ma scontò con dignità il suo fascismo postumo per una vita. Parlo di lui e di Giano Accame, di Piero Buscaroli, di Fausto Gianfranceschi e Fausto Belfiori e altri.
Allievo di Massimo Scaligero, più vicino al pensiero di Rudolph Steiner che di Julius Evola, Erra fu tra i primi giovani missini che dopo la guerra cercò e coinvolse Evola, ormai paralizzato, nelle sue riviste giovanili, dove scrivevano tra gli altri anche Rauti e Sterpa. La sfida, Imperium… Eppure Erra del Msi preferiva l’ala meno nostalgica e più «entrista» del Msi, polemizzando con gli almirantiani. Erra si riavvicinò al Msi e alla politica dopo una lontananza trentennale, alla morte di Almirante, e poi si riallontanò con la nascita di Alleanza nazionale. Ma Erra non fu solo animale politico e cultore a latere di scienze dello spirito, fu anche un fior di notista politico e di saggista storico: ricordo tra le altre, «Le sei risposte» a Renzo De Felice, «Le quattro giornate di Napoli» e «Le radici del fascismo», che resta tra i migliori tentativi di interpretare il fascismo da posizioni neofasciste.
Da ragazzo andavo a trovare lui e de Turris in sala stampa romana a piazza san Silvestro, dove era notista politico del Roma di Lauro, e lui lasciava agenzie e pastoni per infervorarsi a conversare di storia politica e cultura. Ti guardava con quegli occhi chiari dietro quel filo spinato di sopracciglia e alternava toni solenni e perentori a scanzonate risate napoletane.
Da ragazzo andavo a trovare lui e de Turris in sala stampa romana a piazza san Silvestro, dove era notista politico del Roma di Lauro, e lui lasciava agenzie e pastoni per infervorarsi a conversare di storia politica e cultura. Ti guardava con quegli occhi chiari dietro quel filo spinato di sopracciglia e alternava toni solenni e perentori a scanzonate risate napoletane.
Ricordo che lo conobbi nel castello romagnolo di Giovanni Volpe, lui che raccontava quando fu convocato dai giudici perché quelli del golpe Borghese nel loro delirante organigramma, lo avevano assegnato, a sua insaputa, alla direzione del Messaggero. E lui pensava divertito al comitato di redazione che aveva respinto fiori di direttori moderati, costretto a sorbirsi il «camerata» Erra manu militari… La sua battaglia revisionista proseguì sulla rivista Storia Verità di Enzo Cipriano, ma scrisse su varie riviste e poi sulle pagine culturali del Giornale. Penso allo strano destino di quel piccolo mondo della destra giornalistica: penso al Pisanò che scriveva le cose che poi ha scritto con successo Pansa, penso a Gianna Preda che fu la Fallaci al tempo in cui l’Oriana era di sinistra, penso ad Angelo Manna che diceva le cose che poi ha scritto Pino Aprile sui terroni. E penso a Cattabiani, Marcolla e Quarantotto che scoprirono autori e filoni che poi ha scoperto Calasso con l’Adelphi. Ed Enzo Erra, che meriterebbe la fama di un Giorgio Bocca; ma lui era colto, spiritoso e dalla parte sbagliata…
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