Per ri-fare il punto, un utile articolo di Rodolfo Casadei dal sito Il deserto dei Tartari:
Come si sente un inviato che torna dalla Siria dopo aver trascorso una settimana nel martoriato paese in aree controllate dalle forze governative e si imbatte nelle notizie che i media italiani danno della riunione degli “Amici della Siria” a Roma, in particolare le dichiarazioni del segretario di Stato americano John Kerry e del ministro degli Esteri italiano Giulio Terzi? Si sente male. Perché il quadro della situazione che queste persone disegnano e giustificano – un regime dittatoriale che opprime il suo popolo e si macchia di crimini di guerra contro la popolazione civile e un’opposizione che ha bisogno del sostegno della comunità internazionale per prevalere e portare la democrazia nel paese- è lontanissimo dalla realtà. L’idea che grazie a Usa ed Europa in Siria entrino altre armi – “non letali”, perché tanto a quelle letali ci pensano già i paesi arabi sunniti come Qatar, Arabia Saudita e Turchia – in aggiunta a quelle che già ci sono dall’una e dall’altra parte, dà semplicemente la nausea. Da quando in qua per spegnere un incendio si butta altra benzina sul fuoco? Forse da quando non si ha il coraggio -o più probabilmente l’interesse- a guardare in faccia la realtà nella totalità dei suoi fattori.
E allora è certamente vero che le forze governative -esercito, servizi di sicurezza, milizie di civili armati- si sono macchiate di crimini di guerra con esecuzioni sommarie, torture, violenze su civili, stragi gratuite, arresti indiscriminati e maltrattamenti nelle prigioni. Io questo non l’ho potuto accertare di persona, ma mi fido di Human Rights Watch e di altre organizzazioni che lo hanno attestato nei loro rapporti. Vorrei però modestamente aggiungere che una settimana trascorsa in Siria nelle aree più o meno precariamente controllate dalle forze governative mi ha consentito di toccare con mano il terrore in cui vivono le popolazioni di quelle zone, quotidianamente esposte alla minaccia di autobombe, colpi di mortaio e rapimenti – sia da parte di elementi criminali che di bande di ribelli -, che giorno per giorno si traduce in realtà. Nel comunicato diffuso dalla Farnesina al termine dei lavori degli “Amici della Siria”, basato sulle dichiarazioni dei ministri degli 11 paesi presenti, si legge fra l’altro che «Il regime deve porre un termine immediato ai bombardamenti indiscriminati contro le aree popolate perché si tratta di crimini contro l’umanità e non possono rimanere impuniti». Giovedì 21 febbraio sono arrivato a Damasco poche ore dopo che due autobombe, opera di ribelli jihadisti, erano esplose a Mazraa e Barzeh, nel cuore della città, uccidendo 52 civili. Nei giorni seguenti ho visitato alcuni dei feriti scampati all’eccidio. Fra loro una signora, madre trentenne divorziata con due figli adolescenti, che è rimasta sfigurata al volto dall’esplosione. Si tratta di una profuga, musulmana sunnita come tutta la sua famiglia, che ha dovuto abbandonare la casa dove abitava coi genitori nel sobborgo di Ein Tarma a causa degli scontri fra governo e ribelli. Era stata accolta in una moschea vicina al luogo dell’attentato. Il fratello ha protestato davanti alle telecamere della televisione, gridando «è questa la libertà che ci vogliono dare?», e subito gli sono arrivate minacce di morte da parte dei ribelli. In una stanza poco lontana dello stesso ospedale giace un ragazzo palestinese di 15 anni del campo profughi di Yarmuk, alle porte di Damasco. Un cecchino di parte ribelle gli ha aperto tre fori nell’addome, ai quali è miracolosamente sopravvissuto. È andata peggio a quattro suoi amici della sua stessa età, che nel giro di tre mesi hanno perso la vita per il fuoco dei cecchini. Il ragazzino, di cui taccio il nome per tutelare la sua incolumità, mi ha spiegato che dopo essersi limitati per qualche tempo a sparare agli uomini, adesso i cecchini dei ribelli sparano anche alle donne e ai bambini di certe aree del quartiere palestinese. A un bambino di 9 anni, suo compagno di stanza fino al giorno prima che io visitassi l’ospedale, è stata amputata una gamba ferita.
A Damasco non c’è stato giorno, dei quasi cinque che vi ho trascorso in due riprese, senza che cadessero sui quartieri del centro colpi di mortaio lanciati contro obiettivi governativi, ma in realtà non meno imprecisi delle bordate di artiglieria sparate dall’esercito contro i quartieri della periferia in mano ai ribelli. Quando mi sono spostato nelle province del nord-est, ho incontrato famiglie e studenti cristiani in fuga per le continue minacce di morte e di rapimento da parte sia di elementi della criminalità, scatenati a causa del quasi collasso delle istituzioni, sia di elementi jihadisti e salafiti intenzionati a fare piazza pulita della millenaria presenza cristiana in Siria. A Damasco come nel nord-est quasi nessuno di quelli che hanno parlato con me ha accettato di farsi fotografare; nessun profugo dei 15 centri di accoglienza di Damasco e nessuno dei giovani volontari che operano presso queste strutture ha accettato che io prendessi le loro immagini: tutti hanno paura di subire rappresaglie da parte dei ribelli. Allora la mia domanda agli “Amici della Siria” è la seguente: quelli che ho fin qui elencato e che ho toccato con mano -condividendo coi semplici cittadini siriani delle aree governative il quotidiano pericolo rappresentato dalle autobomba e dai colpi di mortaio che cadevano un po’ dappertutto, e quello rappresentato dai dilaganti sequestri di persona nel nord-est- rappresentano «crimini contro l’umanità che non possono restare impuniti» oppure no? E se, come penso tutti convengano, lo sono, perché il ministro Terzi, il segretario di Stato Kerry, e gli altri ministri europei presenti alla riunione non hanno disposto perché venissero inseriti nella dichiarazione finale? Il sangue dei civili -cristiani, sunniti, palestinesi, alawiti, curdi, ecc.- che rischiano quotidianamente la vita o la sicurezza personale a causa delle attività militari dei ribelli, vale meno di quello dei civili che hanno la sfortuna di trovarsi nelle aree bersaglio degli attacchi delle forze governative? A nessuno viene in mente che la fornitura di aiuti militari “non letali” ai ribelli -giubbotti antiproiettile, visori notturni, blindati- aumenterà le probabilità dei civili residenti nelle aree governative di cadere vittima degli attacchi di costoro? Lunedì scorso mi trovavo a Damasco nel quartiere di Salieh con altri stranieri, quando l’esplosione di un’autobomba nel non distante quartiere di al Qaboun ha dato il via a una battaglia che è durata un’ora. Forse se avessero avuto a disposizione i blindati e i giubbotti antiproiettile che Usa e Nato potrebbero fornire loro i ribelli non sarebbero stati respinti, ma avrebbero invaso il centro città. Chi avrebbe a quel punto garantito i civili dalle razzie di tutti i loro beni mobili, come accaduto in molte località occupate dai ribelli? Chi avrebbe impedito a qualcuno dei vari gruppi combattenti di sequestrare noi stranieri e chiedere un ingente riscatto?
Naturalmente non considero stupidi o ingenui gli “amici della Siria” riuniti l’altro ieri a Roma, né ingenuo sono io. Kerry, Terzi (ministro tecnico “indicato” a suo tempo da Gianfranco Fini) e tutti gli altri sono perfettamente al corrente di quello che ho sopra raccontato. Sanno benissimo che crimini di guerra vengono compiuti da una parte e dall’altra con terrificante regolarità. Come pure sanno che alla fine della guerra civile internazionalizzata attualmente in corso la Siria non conoscerà nessuna trasformazione democratica, sia che vincano i ribelli, sia che vinca il regime. Più probabilmente non vincerà nessuno. La via delle armi e della guerra generalizzata determinerà la discesa del paese nel caos, dal quale non si riprenderà per lungo tempo. La manfrina di Roma serve soltanto ad occultare l’imperativo geopolitico che detta la posizione di Usa, Ue e Nato di fronte alla crisi siriana: indebolire l’Iran e la Russia favorendo la caduta di un regime, quello di Damasco, che è loro storico alleato. Ma siccome combattere le influenze iraniane e russe in Medio Oriente attraverso la morte violenta di centinaia di migliaia di siriani potrebbe essere considerata una politica cinica e leggermente criminale, l’amministrazione Obama e la Nato preferiscono mettere l’accento sui crimini di guerra del regime e sulla necessità di proteggere i civili nelle aree controllate dai ribelli. Una logica che lascia senza parole. Destabilizzare il cuore della mezzaluna fertile mediorientale potrà servire a occidentali (e sunniti) a sgominare i disegni di Iran e Russia nella regione. Ma solo al prezzo di creare minacce più gravi. Ad approfittarne saranno infatti i jihadisti, come dimostra quello che sta succedendo nell’Africa occidentale dopo l’eliminazione manu militari di Gheddafi in Libia. Ma a parte l’azzardo geopolitico, questo modo di fare politica internazionale con un totale disprezzo della vita umana e con l’arroganza di un’ipocrisia sfrontata, fa veramente venire la nausea. Identica alla nausea reale provata da chi, come me, si è trovato per quasi cinque giorni in una città dove, fra cannoneggiamenti quotidiani di parte governativa sui quartieri ribelli e autobomba e colpi di mortaio dei jihadisti e del Libero esercito siriano sul centro città, poteva accadere veramente il peggio a chiunque e in qualunque momento.
E allora è certamente vero che le forze governative -esercito, servizi di sicurezza, milizie di civili armati- si sono macchiate di crimini di guerra con esecuzioni sommarie, torture, violenze su civili, stragi gratuite, arresti indiscriminati e maltrattamenti nelle prigioni. Io questo non l’ho potuto accertare di persona, ma mi fido di Human Rights Watch e di altre organizzazioni che lo hanno attestato nei loro rapporti. Vorrei però modestamente aggiungere che una settimana trascorsa in Siria nelle aree più o meno precariamente controllate dalle forze governative mi ha consentito di toccare con mano il terrore in cui vivono le popolazioni di quelle zone, quotidianamente esposte alla minaccia di autobombe, colpi di mortaio e rapimenti – sia da parte di elementi criminali che di bande di ribelli -, che giorno per giorno si traduce in realtà. Nel comunicato diffuso dalla Farnesina al termine dei lavori degli “Amici della Siria”, basato sulle dichiarazioni dei ministri degli 11 paesi presenti, si legge fra l’altro che «Il regime deve porre un termine immediato ai bombardamenti indiscriminati contro le aree popolate perché si tratta di crimini contro l’umanità e non possono rimanere impuniti». Giovedì 21 febbraio sono arrivato a Damasco poche ore dopo che due autobombe, opera di ribelli jihadisti, erano esplose a Mazraa e Barzeh, nel cuore della città, uccidendo 52 civili. Nei giorni seguenti ho visitato alcuni dei feriti scampati all’eccidio. Fra loro una signora, madre trentenne divorziata con due figli adolescenti, che è rimasta sfigurata al volto dall’esplosione. Si tratta di una profuga, musulmana sunnita come tutta la sua famiglia, che ha dovuto abbandonare la casa dove abitava coi genitori nel sobborgo di Ein Tarma a causa degli scontri fra governo e ribelli. Era stata accolta in una moschea vicina al luogo dell’attentato. Il fratello ha protestato davanti alle telecamere della televisione, gridando «è questa la libertà che ci vogliono dare?», e subito gli sono arrivate minacce di morte da parte dei ribelli. In una stanza poco lontana dello stesso ospedale giace un ragazzo palestinese di 15 anni del campo profughi di Yarmuk, alle porte di Damasco. Un cecchino di parte ribelle gli ha aperto tre fori nell’addome, ai quali è miracolosamente sopravvissuto. È andata peggio a quattro suoi amici della sua stessa età, che nel giro di tre mesi hanno perso la vita per il fuoco dei cecchini. Il ragazzino, di cui taccio il nome per tutelare la sua incolumità, mi ha spiegato che dopo essersi limitati per qualche tempo a sparare agli uomini, adesso i cecchini dei ribelli sparano anche alle donne e ai bambini di certe aree del quartiere palestinese. A un bambino di 9 anni, suo compagno di stanza fino al giorno prima che io visitassi l’ospedale, è stata amputata una gamba ferita.
A Damasco non c’è stato giorno, dei quasi cinque che vi ho trascorso in due riprese, senza che cadessero sui quartieri del centro colpi di mortaio lanciati contro obiettivi governativi, ma in realtà non meno imprecisi delle bordate di artiglieria sparate dall’esercito contro i quartieri della periferia in mano ai ribelli. Quando mi sono spostato nelle province del nord-est, ho incontrato famiglie e studenti cristiani in fuga per le continue minacce di morte e di rapimento da parte sia di elementi della criminalità, scatenati a causa del quasi collasso delle istituzioni, sia di elementi jihadisti e salafiti intenzionati a fare piazza pulita della millenaria presenza cristiana in Siria. A Damasco come nel nord-est quasi nessuno di quelli che hanno parlato con me ha accettato di farsi fotografare; nessun profugo dei 15 centri di accoglienza di Damasco e nessuno dei giovani volontari che operano presso queste strutture ha accettato che io prendessi le loro immagini: tutti hanno paura di subire rappresaglie da parte dei ribelli. Allora la mia domanda agli “Amici della Siria” è la seguente: quelli che ho fin qui elencato e che ho toccato con mano -condividendo coi semplici cittadini siriani delle aree governative il quotidiano pericolo rappresentato dalle autobomba e dai colpi di mortaio che cadevano un po’ dappertutto, e quello rappresentato dai dilaganti sequestri di persona nel nord-est- rappresentano «crimini contro l’umanità che non possono restare impuniti» oppure no? E se, come penso tutti convengano, lo sono, perché il ministro Terzi, il segretario di Stato Kerry, e gli altri ministri europei presenti alla riunione non hanno disposto perché venissero inseriti nella dichiarazione finale? Il sangue dei civili -cristiani, sunniti, palestinesi, alawiti, curdi, ecc.- che rischiano quotidianamente la vita o la sicurezza personale a causa delle attività militari dei ribelli, vale meno di quello dei civili che hanno la sfortuna di trovarsi nelle aree bersaglio degli attacchi delle forze governative? A nessuno viene in mente che la fornitura di aiuti militari “non letali” ai ribelli -giubbotti antiproiettile, visori notturni, blindati- aumenterà le probabilità dei civili residenti nelle aree governative di cadere vittima degli attacchi di costoro? Lunedì scorso mi trovavo a Damasco nel quartiere di Salieh con altri stranieri, quando l’esplosione di un’autobomba nel non distante quartiere di al Qaboun ha dato il via a una battaglia che è durata un’ora. Forse se avessero avuto a disposizione i blindati e i giubbotti antiproiettile che Usa e Nato potrebbero fornire loro i ribelli non sarebbero stati respinti, ma avrebbero invaso il centro città. Chi avrebbe a quel punto garantito i civili dalle razzie di tutti i loro beni mobili, come accaduto in molte località occupate dai ribelli? Chi avrebbe impedito a qualcuno dei vari gruppi combattenti di sequestrare noi stranieri e chiedere un ingente riscatto?
Naturalmente non considero stupidi o ingenui gli “amici della Siria” riuniti l’altro ieri a Roma, né ingenuo sono io. Kerry, Terzi (ministro tecnico “indicato” a suo tempo da Gianfranco Fini) e tutti gli altri sono perfettamente al corrente di quello che ho sopra raccontato. Sanno benissimo che crimini di guerra vengono compiuti da una parte e dall’altra con terrificante regolarità. Come pure sanno che alla fine della guerra civile internazionalizzata attualmente in corso la Siria non conoscerà nessuna trasformazione democratica, sia che vincano i ribelli, sia che vinca il regime. Più probabilmente non vincerà nessuno. La via delle armi e della guerra generalizzata determinerà la discesa del paese nel caos, dal quale non si riprenderà per lungo tempo. La manfrina di Roma serve soltanto ad occultare l’imperativo geopolitico che detta la posizione di Usa, Ue e Nato di fronte alla crisi siriana: indebolire l’Iran e la Russia favorendo la caduta di un regime, quello di Damasco, che è loro storico alleato. Ma siccome combattere le influenze iraniane e russe in Medio Oriente attraverso la morte violenta di centinaia di migliaia di siriani potrebbe essere considerata una politica cinica e leggermente criminale, l’amministrazione Obama e la Nato preferiscono mettere l’accento sui crimini di guerra del regime e sulla necessità di proteggere i civili nelle aree controllate dai ribelli. Una logica che lascia senza parole. Destabilizzare il cuore della mezzaluna fertile mediorientale potrà servire a occidentali (e sunniti) a sgominare i disegni di Iran e Russia nella regione. Ma solo al prezzo di creare minacce più gravi. Ad approfittarne saranno infatti i jihadisti, come dimostra quello che sta succedendo nell’Africa occidentale dopo l’eliminazione manu militari di Gheddafi in Libia. Ma a parte l’azzardo geopolitico, questo modo di fare politica internazionale con un totale disprezzo della vita umana e con l’arroganza di un’ipocrisia sfrontata, fa veramente venire la nausea. Identica alla nausea reale provata da chi, come me, si è trovato per quasi cinque giorni in una città dove, fra cannoneggiamenti quotidiani di parte governativa sui quartieri ribelli e autobomba e colpi di mortaio dei jihadisti e del Libero esercito siriano sul centro città, poteva accadere veramente il peggio a chiunque e in qualunque momento.
Nessun commento:
Posta un commento