sabato 12 novembre 2011

Ancora Tarchi.

Gentilmente Marco Tarchi invia il testo della sua  intervista pubblicata sul numero dell'11 novembre di IL, l'allegato al Sole-24 Ore; intervista rilasciata appena prima della vicenda Monti, che quindi non viene citato anche se la penultima domanda riguarda il governo dei "tecnici" (sempre che Monti sia considerabile un "tecnico": è sufficiente essere un perfetto esecutore di ordini per essere un "tecnico"...?).
Da leggere, per provare a riprendere, con serietà e raziocinio, il filo di tanti discorsi.
Mi permetto di richiamare l'attenzione sulle parti che evidenzio in grassetto.

Indignados, scioperi contro le banche, critica della politica come casta indiscriminata.
Professor Tarchi, tira aria di rivoluzione o è normale disincanto democratico? «Nel modello di democrazia come si è sviluppata nell'ultimo cinquantennio c'è una contraddizione sottile messa in luce in particolare da uno dei grandi nomi sul populismo Margaret Canovan. Il paradosso della democrazia rappresentativa sta nel fatto che nel termine democrazia è implicita l'idea del volere popolare, quindi dell'autogoverno della popolazione. Lo strumento rappresentativo però, che era stato presentato inizialmente come il modo migliore per articolare ordinatamente questa capacità di autogoverno del popolo, è diventato il metodo per tenere lontano di fatto l'uomo comune, il soggetto dalla gestione politica».
La democrazia diventa antidemocratica... «Più che altro c'è un abuso del termine democrazia che andrebbe ridimensionato, perché oggi ci troviamo di fronte a quelli che, senza nessun tipo d'intento polemico, potremmo definire "regimi liberali", dove regime è termine neutro, come noi in scienza politica usiamo l'espressione regimi autoritari, totalitari, democratici. Modelli nei quali il meccanismo di governo è fortemente elitario ma in cui c'è una richiesta continua di consenso di quelle decisioni che la élite politica prende». Flusso di consenso, direbbe Bauman. «La creazione dell'opinione attraverso i flussi comunicativi ci riporta piuttosto un altro studioso, Armani, che ha definito la nostra "democrazia dell'audience". Quello che si cerca è l'applauso da parte di un pubblico che accetti di vedersi confrontare sulla scena i vari soggetti politici che propongono programmi che poi hanno pesi diversi ma che in definitiva vuole essere premiato all'applausometro».
Quando crolla l'audience? «Finché le condizioni economiche e sociali consentono, per usare un'espressione della mia generazione, di vivere al di sopra dei propri mezzi con il debito pubblico, i meccanismi clientelari le logiche di scambio tra gruppi d'interesse, partiti allora non c'è un'incrinatura forte nel rapporto tra la cosiddetta società civile e la società politica. Ma quando viene meno qualche elemento di questa specie di piattaforma di sicurezza molti cominciano a domandarsi: "Ma perché devo starmene qui in silenzio mentre là sopra si fanno i fatti loro e non pagano il prezzo della crisi come lo pago io?". Questo spiega, ad esempio, in maniera sensata e scientifica quello che tante volte si rappresenta in forma polemica e piuttosto abborracciata, la nascita della mentalità populista. Perché la base è proprio questa, la rivendicazione del diritto-dovere di incidere sulle decisioni in quanto la legittimità del governo è sulla base del consenso popolare. E quindi l'idea che i partiti e i governi devono rendere conto in maniera più trasparente e meno episodica delle loro azioni è alla base stessa della legittimità democratica. Quindi prendere tutto questo come espressione semplicemente di un fastidio verso la democrazia secondo me è assolutamente errato. D'altra parte...». D'altra parte? «Mi chiedo: ma la cosiddetta società civile ha poi davvero il diritto di autoassolversi in questi malfunzionamenti del nostro sistema politico? Io penso di no. Perché se è vero che l'inefficienza, le logiche di scambio clientelare, la mancata trasparenza nei rapporti con la pubblica amministrazione, se tutto questo si è verificato si deve anche a una sorta di acquiescenza di questa pubblica opinione che per lungo tempo si è accontentata di queste logiche di scambio, che ha ritenuto che si potesse ricavare comunque qualche vantaggio dal fatto che il sistema non guardava all'efficienza ma alla conquista di spazi di consenso in una logica di do ut des. Quindi da questo punto di vista da quale pulpito viene la predica?».
E i giovani che si indignano oyunque? «È evidente che siamo di fronte a un tipo di reazione di massa che non ha un movente ideologico, a differenza di altri momenti. Il problema è sempre quello però che investe la vita dei movimenti collettivi. Ovvero, questi movimenti sorgono quasi sempre spontaneamente sulla base di stati d'animo collettivi e dunque implicano passionalità, impegno, in genere sono mossi da studenti o comunque da giovani che hanno tempo ed energie da dedicare, conquista soprattutto un movimento di questo tipo una visibilità mediale molto acuta. Per cui finisce per fare prevalere un momento di pura espressività senza che vi sia la riflessività. Senza pretendere da questi movimenti delle analisi economicamente ortodosse vorrei capire se vi è dietro questo tipo di spinte quantomeno la delineazione di un modello di società alternativo partendo dal piano dei comportamenti individuali e collettivi o se vi sia soltanto lo sfogo umorale. Perché esso è legittimo ma è un grido di protesta che si risolve in se stesso. Pensi al 1968». Politicamente, un fallimento. «Sì, però ha trascinato con sé una modifica sostanziale del costume. Io non vedo traccia negli indignados di questo aspetto. Quale è il messaggio dal punto di vista del costume, della mentalità comportamentale che emerge da queste spinte? Certamente non si può pensare che sia positivo lo sfasciamento sistematico di certi obiettivi simbolici, quando si dice noi rifiutiamo la logica delle banche che succhiano il sangue al popolo, si è poi disposti per interrompere questo circuito per esempio a ridiscutere la mentalità del consumismo, ovvero c'è l'idea che si possa - come taluni dicono - vivere meglio con meno? E se sì, come si esprime tutto questo perché se questo tipo di spinta non c'è è semplicemente la rivendicazione di un miglior posto a tavola ma non si mettono in discussione la tavole né le pietanze che vengono servite, né il contesto nel quale questo avviene e così via, allora...».
È pensabile un modello di democrazia che superi quella liberale? «L'epoca è dominata da uno Zeitgeist nel quale domina la profezia di Fukuyama, per cui siamo arrivati allo stadio estremo della pensabilità di un modello di pensabilità politica. Dopo la democrazia liberale non c'è più niente che possa andare in questa direzione ulteriore. Se stiamo dentro quest'orizzonte naturalmente non si può pensare che la via della mobilitazione di piazza sia una risposta efficace, anche se io da tempo rifletto su un punto che mi pare piuttosto critico». Quale? «Si è detto qualche decennio addietro che c'era il rischio che la democrazia come "regime di opinioni", per citare Sartori, legittimato attraverso la politica dalla prova delle elezioni e la dialettica parlamentare era sfidata dalla "videopolitica", dalla sorta di un contropotere che nel caso specifico era quello che veniva esercitato attraverso l'uso dei sondaggi attraverso il classico richiamo a cui tutti hanno fatto ricorso, al foglietto di carta in cui c'è scritto anche se avete vinto le elezioni oggi i sondaggi ci dicono che il 59 per cento dei cittadini non è d'accordo con quello che fate mentre la nostra proposta, eccetera. Ebbene, oggi ho l'impressione che si stia pensando da più parti che vi sia un altro modo per correggere la via parlamentare come forma di democrazia e sia la democrazia non dell'audience ma della "mobilitazione in piazza" per cui contano i numeri di quanti si riescono a mobilitare e questa grande esaltazione delle primavere arabe ha contribuito a mettere in circuito questa sensazione, che è pericolosa perché in fondo fa pensare che la vox populi sia solo quella di coloro che hanno tempo, voglia e risorse per poter scendere in piazza per manifestare più o meno rumorosamente. Ma non dimentichiamo un dato: noi viviamo in società complesse e popolate, e quand'anche si portino trecentomila, cinquecentomila persone in una piazza di un Paese come l'Italia, ce ne sono cinquantanove milioni e mezzo che in piazza non ci sono andati».
Non c'è alternativa a questo sistema, dunque? «L'idea che si debba ricorrere a questo strumento perché la classe politica resta rappresentativamente tutta corrotta, tutta inefficiente e tutta incapace, crea lo scadimento verso gli aspetti più pericolosi del populismo, uno sbocco preoccupante di quello che chiamava disincanto democratico. Anche perché nel nostro tempo dopo la democrazia nell'orizzonte dei valori che vengono condivisi dalla mentalità collettiva c'è solo la tecnocrazia».
Una tentazione ricorrente, il governo dei tecnici puri. «Scartata la carta di altre soluzioni, che hanno fallito storicamente, come tutte quelle di ordine gerarchizzante che erano caratteristiche dei regimi autoritari o totalitari, diamo tutto in mano ai tecnici perché sono loro gli unici che ci possono traghettare fuori dal disastro. Tutto questo è pericolosissimo. Perché in questo modo con una sorta di espropriazione della politica ci si mette in mano senza mediazioni al gioco puro degli interessi. Economici in prima battuta, i quali sono suscettibili a logiche che non sono democratiche affatto, si arriva al paradosso che la postdemocrazia diviene una negazione piena delle premesse del discorso democratico e diventa un'accentuazione foltissima del gioco più o meno libero oppure più o meno oligopolistico dei centri di potere economico».
Ultima domanda. Quali sono i temi politici su cui si dividerà la società del futuro? L'ambientalismo? «No. L'ambientalismo è stato assorbito da tutte le forze politiche, perché era un elemento positivo e spendibile. Chi del resto è contro l'ambiente? I clivage del futuro saranno le forme di organizzazione della società multiculturale, che subiscono l'immigrazione di massa. Come si governeranno, queste società? Con il multiculturalismo o il monoculturalismo. Oggi la discussione è ancora rozza, tra xenofobi e xenofili, ma si raffinerà. Un altro importante clivage sarà la bioetica, che mette in campo il nodo centrale della modernità compiuta in cui l'individuo è l'unico padrone di se stesso e del proprio habitat che vuole e deve decidere a piacere. Saremo divisi tra sostenitori dell'ordine naturale e di quello supernaturale»

1 commento:

  1. Ho letto. Che tristezza.
    Di stortura in stortura, si dimette un pessimo capo di governo che aveva finora resistito nonostante abnormi conflitti di interessi, pubblici vizi, e i più potenti e vili attacchi di delegittimazione mai subiti in un paese occidentale - complici molti giornalisti indegni di questo nome per non parlare di certa magistratura. Eletto e rieletto dal popolo, a tutto questo ha resistito, ma non agli interessi del "mercato", lasciando ora il posto probabilmente a un uomo (della provvidenza? tecnico??) NON ELETTO dal popolo!
    Era dal 1945 che non si riusciva a ritrovarsi tutti quanti perdenti e dalla parte del torto; ora ce l'abbiamo messa tutta e ci siamo di nuovo. Che tristezza.

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