Mandato di arresto europeo

Tutti sanno (almeno lo spero...) che l'introduzione della normativa sul mandato d'arresto europeo è stata accompagnata da accese polemiche e dalla ferma opposizione di autorevoli giuristi ed intellettuali.
Chi però voglia approfondire la conoscenza delle ragioni di queste opposizioni si trova in difficoltà, poichè su internet si rinvengono molti accenni, ma i testi di riferimento sono pochissimi e difficilmente accessibili.
Ho provveduto quindi a scannerizzare tre saggi che costituiscono, credo, la summa delle "voci contro" in materia di mandato d'arresto europeo:
- Alberto Costanzo, Mandato d'arresto europeo, Chieti 2007;
- Augusto Sinagra, Qualche riflessione sul mandato d'arresto europeo, in Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale, n. 28-2008, pagg. 46 sgg.;
- Alberto Costanzo, Un aggiornamento in tema di mandato d'arresto europeo, in Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale, n. 32-2009, pagg. 192 sgg.
Il primo testo è una monografia ormai esaurita da tempo, gli altri due sono articoli reperibili solo rintracciando biblioteche che conservino la Rivista.
Credo quindi di fare cosa utile mettendo a disposizione i tre testi in formato pdf. Chi desideri riceverli, non ha che da chiederli all'indirizzo: alberto.costanzo@infinito.it .
Preciso per doverosa completezza che esiste anche un quarto studio - di livello veramente alto - realizzato dal Magistrato Dott. Carlo Alberto Agnoli, scaricabile dal sito noreporter.org, che presenta però il limite di essere stato scritto parecchi anni or sono e di non essere quindi aggiornato.

AGGIORNAMENTO.
Nel dicembre 2011, grazie al cortese invito rivoltomi dall'intraprendente e attivissimo Prof. Claudio Moffa, ho avuto l'opportunità di portare ad un convegno svoltosi presso l'Università di Teramo ("Il nuovo Leviatano. Moneta, economia,diritti: la fine delle sovranità popolari?", Teramo, 6.12.2011) una relazione aggiornata in tema di mandato d'arresto europeo.
Poichè constato che la prevista pubblicazione degli atti del convegno non vi è, in realtà, stata (certamente non per colpa del Prof. Moffa, che so invece che si era attivato in tal senso!) ritengo opportuno pubblicare qui di seguito il testo di quella relazione, affinchè non vada perduta: 

IL MANDATO DI CATTURA DEL LEVIATANO:
27 CODICI PENALI PER OGNI CITTADINO EUROPEO
Una disamina completa della normativa relativa al mandato d’arresto europeo (d’ora in poi m.a.e.) renderebbe necessario lo studio di una grande quantità di aspetti e di problematiche; è un argomento estesissimo che presenta innumerevoli sfaccettature, ciascuna dei quali meriterebbe un’analisi perché idonea a fare luce su profili dell’attività dell’UE, le cui implicazioni spesso sfuggono, non solo al cittadino comune, ma anche alla dottrina giuridica.
Proprio l’ampiezza del tema, e delle sue connessioni, impone di delimitare l’oggetto di questo intervento, che non potrà estendersi a tutta la materia né potrà avere pretese di approfondimento scientifico. In particolare, riterrei di considerare già note le nozioni di base sul m.a.e., poiché negli scorsi anni se ne è parlato in varie sedi e so che il Prof. Sinagra ha già fatto opera di divulgazione intervenendo su questo tema in precedenti convegni organizzati dal Prof. Moffa. Parimenti non mi soffermerei sulla storia della sua genesi, che risale ad un momento emergenziale (subito dopo l’11 settembre 2001), momento peraltro “usato” come mero pretesto per imporre il testo di una decisione-quadro che era già pronta da tempo, e che in quell’occasione venne fittiziamente presentata come strumento per la lotta al terrorismo, il che, come dimostrato da molti autori, non è.       
Riterrei invece più utile, dopo alcune considerazioni introduttive (punto 1.), esporre riassuntivamente (punto 2.) gli effetti prodotti dall’entrata in vigore del m.a.e. sulle normative interne dei Paesi europei, per poi dedicarmi (punto 3.) ad alcune riflessioni “intorno” al m.a.e., ma riferite al tema del convegno, che riguarda la perdita delle sovranità popolari, e quindi delle sovranità degli Stati nazionali. Infine (punto 4.) vorrei rispondere ad un paio di osservazioni formulate da altri relatori di questo convegno.
1.
Chi segue le pubblicazioni scientifiche ed i convegni sull’argomento (numerose le prime, meno frequenti i secondi) constata come i pochi autori, che intendano porsi in modo critico o problematico nei confronti dell’istituto del m.a.e., lo facciano con grande difficoltà e timidezza, spesso limitandosi a giudizi sfumati e senza quasi mai portare fino in fondo i loro ragionamenti.
Questo stato di cose non può e non deve stupire; anzi, si presta ad osservazioni interessanti poiché permette di toccare con mano quanto sia invasiva la forza di condizionamento del pensiero unico, della cultura ufficiale (“mainstream”), del politically correct: un pensiero unico che definisce a priori ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, che viaggia per dogmi e miti, ai quali è ben difficile opporsi. Ecco, così, che chi muove critiche all’istituto del m.a.e. viene a trovarsi, in automatico, dalla “parte sbagliata”, perché critica un prodotto dell’UE, il cui operato è sempre e comunque, per definizione, giusto bello e buono.
Accade, in tal modo, anche di peggio, come io stesso ho dovuto constatare in un recente convegno: accade che il relatore, il quale intenda accostarsi criticamente all’istituto, non solo non osi affondare il bisturi temendo di ricevere l’infamante etichetta di antieuropeista (fascista!!!), ma inoltre si dilunghi nell’esporre piccoli problemi tecnico-giuridici di ben modesta importanza, relativi a minuscoli dettagli della normativa, ingenerando così negli ascoltatori il convincimento che quelli siano gli aspetti problematici della legge, e che quindi, una volta risolte e corrette quelle piccole imprecisioni, il m.a.e. sia un valido strumento per la lotta alla criminalità.    
Una simile informazione è totalmente errata. La verità è che tutta la normativa del m.a.e., nel suo impianto complessivo e nella sua struttura, calpesta diritti fondamentali del cittadino, viola garanzie stratificatesi nel corso dei secoli, scardina principi di civiltà giuridica che fino a ieri credevamo intoccabili. Non si può non evidenziare l’iniquità e l’ingiustizia sostanziale di una normativa che potrebbe stravolgere la vita di ciascuno di noi. Il m.a.e. non è una legge che richieda qualche aggiustamento di dettaglio, un po’ di maquillage: è un’aberrazione giuridica che sotterra principi e garanzie fondamentali e potrebbe colpire chiunque.
In effetti, a dispetto di quanto affermavano i proponenti sforzandosi di banalizzare il problema, il m.a.e. non garantisce una giustizia internazionale più efficiente: non si tratta di un sistema di estradizione semplificata, ma - come è stato definito - di una vera e propria "dittatura su base giurisdizionale", di uno strumento idoneo a perseguire senza remore l’omologazione culturale e delle idee. Si tratta di una normativa introdotta (ufficialmente) per semplificare il sistema di consegna dei ricercati e condannati tra Paesi europei con finalità di lotta al terrorismo ed alla criminalità organizzata, ma in realtà funzionale all’instaurazione di un sistema di “censura continentale” mediante l’introduzione dei reati d’opinione, di “razzismo” e di “xenofobia”, che nulla c’entrano con la lotta al terrorismo ed alla criminalità organizzata.
Naturalmente questi giudizi non sono miei, ma di giuristi ben più autorevoli di me, che tentarono (invano) di mettere in guardia dai pericoli della deriva illiberale e totalitaria che il m.a.e. trascina con sé. Vincenzo Caianiello, ex Presidente della Corte Costituzionale, definì il m.a.e. una proposta “giacobina”, cioè tesa ad instaurare un clima di terrore istituzionalizzato. Seria preoccupazione fu espressa, tra gli altri, da Ettore Randazzo, Giuseppe Frigo, Giuliano Pisapia, Giuliano Vassalli, Carlo Alberto Agnoli, e così via.
Ed è importante osservare come gli effetti dell’istituto si producano non solo nell’ambito del diritto penale processuale e della normativa sull’estradizione (come solitamente si pensa), ma anche a livello di diritto penale sostanziale. Non è infatti un caso che il titolo del mio intervento sia “27 codici penali per ogni cittadino europeo”: 27 codici penali sostanziali, appunto. Lo vedremo nel seguito.
2.
Affrontando gli effetti prodotti dall’entrata in vigore del m.a.e. sulle normative interne dei Paesi europei, si impone iniziare dalla disciplina dell’estradizione, che il m.a.e. va a sostituire nei rapporti tra i 27 Paesi membri.
Prima della legge in esame, la disciplina dell’estradizione tra i Paesi europei era contenuta nella Convenzione di Parigi del 13 dicembre 1957 ed era contornata da una precisa serie di garanzie per il cittadino, in virtù delle quali la normativa vigente in Italia era la seguente:
-        l’estradizione non poteva mai essere concessa per reati politici;
-        non poteva mai essere concessa per i reati commessi in Italia;
-        era sempre rifiutabile se l’estradando era cittadino italiano;
-        era concedibile solo se il fatto per il quale era chiesta costituiva reato anche in Italia (principio c.d. della “doppia punibilità”);
-        non era concedibile se lo Stato richiedente non assicurava che non sarebbe stata eseguita la pena di morte;
-        l’estradato poteva essere processato solo per il fatto per cui era stata chiesta l’estradizione e non anche per fatti anteriori (principio c.d. “di specialità”);
-        il cittadino consegnato non poteva essere successivamente estradato dallo Stato richiedente ad altri Stati;
-        l’estradizione era concessa solo se sussistevano gravi indizi di colpevolezza;
-        non era concessa per i reati tributari, salvo esplicito accordo bilaterale con lo Stato richiedente.      
La Convenzione di Parigi conteneva inoltre, all’art. 8, la c.d. “clausola di ordine pubblico”, cioè quella clausola (presente in tutte le convenzioni di diritto internazionale privato) che facoltizza il singolo Stato, in casi ed ipotesi particolari ed eccezionali, a svincolarsi dagli obblighi assunti qualora questi ledano principi fondamentali dello Stato stesso.
Si tratta, come è facile intuire, di garanzie formatesi nell’esperienza secolare dei rapporti tra gli Stati: non nascono da qualche strana visione ideologica o astratta, ma dalla pratica quotidiana che insegna pragmaticamente a distinguere ciò che è necessario da ciò che non lo è.
Ebbene, con l’applicazione del m.a.e. tutte queste garanzie vengono meno: la consegna allo Stato richiedente avviene anche per i reati politici, anche per i reati commessi in Italia, anche se la persona interessata è cittadino italiano, anche se il fatto commesso non costituisce reato in Italia (questo per 32 “categorie di reati”, come meglio vedremo tra poco), anche senza assicurazione che non verrà eseguita la pena di morte. La persona consegnata potrà essere giudicata anche per reati anteriori e potrà essere consegnata anche ad altri Paesi. Inoltre è esclusa ogni possibilità di sindacato, da parte del Paese che riceve la richiesta, in ordine alla sussistenza di reali indizi di colpevolezza, di cui lo Stato richiedente non deve nemmeno fornire la prova: la richiesta di consegna si limita infatti a contenere solo l’ipotesi di reato e pochi altri requisiti di natura puramente formale. Naturalmente non opera alcuna “clausola di ordine pubblico”.
Insomma, la richiesta di m.a.e. produce in modo automatico l’obbligo di consegna, a cui l’autorità giudiziaria dello Stato che riceve la richiesta non può praticamente mai opporsi, tanto che alcuni autori sono stati indotti a definire “notarile” il suo ruolo.  Garanzie elaborate nel corso di secoli di civiltà giuridica sono spazzate via da un’eurocrazia anonima, lontana, priva di legittimazione popolare, che opera secondo procedure sconosciute alla stragrande maggioranza degli europei. Non solo lo Stato rinuncia alla tutela dei propri cittadini all’estero, ma persino la difesa tecnica (l’“avvocato difensore”) è vanificata, poichè l’automaticità dei meccanismi di consegna del ricercato è tale che, di fatto, non c’è possibilità di difesa, ed infatti l’art. 12 della decisione-quadro non prevede la figura dell’“avvocato difensore” bensì quella del “consulente legale”!
Un’altra parte delicata ed importantissima del nostro sistema processuale penale che il m.a.e. va a stravolgere è quella relativa alla competenza del giudice penale.
In base all’art. 25 c. 1 della nostra Costituzione ed in base all’art. 8 c. 1 del codice di procedura penale italiano, la competenza spetta sempre al giudice del luogo in cui il reato è consumato. Questo viene definito “giudice precostituito dalla legge” e, per evitare abusi, nessuno può essergli distolto. Si tratta di una fondamentale garanzia di giustizia e di civiltà. Secondo la normativa del m.a.e. prevista dalla decisione-quadro comunitaria, invece, chiunque può essere consegnato ad un’autorità giudiziaria straniera anche per fatti commessi nel territorio del Paese di cui è cittadino, cioè può essere consegnato ad un’autorità che non è il giudice precostituito dalla legge!
In altre parole, non esiste più un “giudice precostituito dalla legge”, posto che qualsiasi giudice di qualsiasi Paese dell’UE può decidere di essere competente a giudicare chiunque indipendentemente dal luogo di commissione del reato. Con tutto ciò che comporta (ed è facilmente immaginabile) essere processati a migliaia di chilometri da casa, dovendosi difendere in una lingua che non si conosce, in un processo retto da regole che non si conoscono, ecc.
E veniamo finalmente ad un punto che definire cruciale sarebbe eufemistico: gli effetti del m.a.e. sul diritto penale sostanziale (i “27 codici penali per ogni cittadino”).
Qui siamo veramente alla deflagrazione del sistema.
Come ho già accennato, la disciplina del m.a.e. impone che, per 32 categorie di reati, la consegna debba avvenire indipendentemente dalla “doppia punibilità”, cioè indipendentemente dalla circostanza che il fatto contestato costituisca reato anche nel Paese ricevente oltre che nel Paese richiedente. Per capirci: il cittadino del Paese X verrà consegnato all’autorità giudiziaria del Paese Y che lo processerà per un fatto che costituisce reato nell’ordinamento del Paese Y ma non costituisce reato nell’ordinamento del suo Paese di appartenenza, e quindi - in ipotesi – per un fatto che egli (non conoscendo a memoria 27 codici penali…) non poteva nemmeno immaginare che un altro Paese dell’UE considerasse reato.      
In realtà, si è tentato di banalizzare persino questo aspetto, affermando che il principio della “doppia punibilità” sarebbe superato dalla sostanziale omogeneità tra le legislazioni penali dei diversi Paesi, per cui, in buona sostanza, ciò che è reato in uno lo sarebbe anche negli altri. Questa affermazione è semplicemente falsa. Anche senza scomodare le legislazioni di Paesi candidati a divenire membri dell’UE quali Israele o la Turchia, la cui tradizione e cultura penalistica è a dir poco incompatibile con la nostra, possiamo osservare differenze di normativa anche considerando Paesi a noi vicini. I casi più evidenti sono quelli di reati come l’aborto, l’eutanasia o il consumo personale di stupefacenti, ma si riscontrano differenze importanti anche nella parte generale del diritto penale: ad es. in Francia, in Germania ed in Spagna il concorso di persone nel reato è disciplinato in modo sostanzialmente difforme rispetto all’Italia, oppure ancora il diritto polacco prevede per il delitto tentato la medesima pena prevista per il delitto consumato (soluzione che a noi parrebbe inaccettabile), e così via.
Lo sconcertante effetto prodotto dal m.a.e. sul diritto penale sostanziale è, dunque, quello di rendere vigenti ed operative, per ogni cittadino ed all’interno di ogni Paese europeo, tutte le figure di reato, tutte le norme incriminatrici di ogni altro Paese!                              
Si tratta – di fatto e nella realtà delle cose - di un’attività di produzione di norme penali che suscita gravissimi interrogativi dal punto di vista del riparto di competenze tra UE e Paesi membri come vedremo nel prosieguo, ma, per quel che ora interessa evidenziare, il punto nodale ruota intorno a quella, tra le 32 categorie di reati per cui è escluso il principio della “doppia punibilità”, che viene definita con l’etichetta “razzismo e xenofobia”. Questa categoria di reati raccoglie le varie “leggi antidiscriminatorie” (meglio note come “leggi liberticide”) di cui ogni Paese europeo ha provveduto a munirsi; in Italia abbiamo la legge Mancino del 1993. Sono quelle leggi che, promulgate con il pretesto ipocrita di difendere talune minoranze, perseguono l’obiettivo dell’imposizione del “pensiero unico” e così sanciscono progressivamente la morte della libertà di parola, di opinione, di pensiero. Tra queste leggi vi sono, attualmente, importanti differenze sia in merito alla definizione di ciò che è reato, sia in merito alla quantificazione delle pene; sono differenze destinate a scomparire con la progressiva applicazione della decisione-quadro del 2008 sulla “lotta mediante il diritto penale del razzismo e della xenofobia.
In attesa di questa equiparazione, il m.a.e. estende a tutti i Paesi membri i reati di opinione, in merito ai quali non possiamo peraltro non sottolineare come, nei suoi atti ufficiali, l’UE dichiari (esplicitamente) di voler criminalizzare, non soltanto la propaganda delle idee, bensì anche i “convincimenti”, cioè le idee in sé e per sé: ecco il reato di pensiero, lo psicoreato! Il Grande Fratello orwelliano non si preoccupava di controllare le azioni, ma i pensieri…
Fedele alla sua mission, questa normativa si è già rivelata uno strumento docile, efficace ed efficiente, producendo (nel più assoluto ed agghiacciante silenzio dei media italiani) l’arresto di un significativo numero di studiosi, intellettuali e comuni cittadini rei di “reati di pensiero”. Particolarmente eclatante il caso dello storico Fredrick Toeben, arrestato in Inghilterra a seguito di richiesta di consegna proveniente dalla Germania per avere espresso idee che costituiscono reato in Germania ma non in Inghilterra. E per chi pensa che i timori da me espressi siano eccessivi, cito un breve passo dell’articolo, a firma Frances Gibb, pubblicato sul Times del 2.10.2008: “Lord Filkin, all’epoca Ministro dell’Interno, disse – quando il mandato d’arresto europeo venne sottoposto all’esame del Parlamento – che nessuno sarebbe stato estradato per comportamenti giudicati legali in Inghilterra. Lo spettro del reato d’opinione ritorna ad aggirarsi in Inghilterra.”.                  
A tutto questo si aggiunga che le 32 categorie di reati vengono indicate soltanto con una “etichetta” (ad es. “razzismo e xenofobia”) inidonea ad individuare le precise fattispecie normative penalmente perseguibili, con la conseguenza che si è in presenza di una fattispecie normativa, non soltanto ignota, ma anche “ricostruibile” in modi diversissimi in base all’interpretazione che il singolo giudice vorrà darne non essendo egli vincolato ad una definizione precisa. Questa estrema incertezza della legge non è certo casuale, ma evidentemente finalizzata ad attribuire al giudice un enorme potere discrezionale. Il pensiero corre naturalmente al famigerato art. 58 del codice penale sovietico del 1926, di cui parlava Solzenicyn, tanto vago ed indefinito nella sua parte prescrittiva da consentire l’arresto e la deportazione di chiunque fosse sospettato (sì, bastava un sospetto!) di attività… “dannosa per l’economia e la rivoluzione”!       
Non è chi non veda dunque come la normativa del m.a.e, se adeguatamente compresa, si palesi funzionale alla soppressione delle voci non conformi al pensiero unico, andando di pari passo con le leggi liberticide nazionali, contro le quali nulla hanno potuto le ripetute ed autorevoli proteste di giuristi ed intellettuali.
Superfluo aggiungere che naturalmente questa normativa presenta innumerevoli incompatibilità con la nostra Costituzione: fatto che pare non interessare a nessuno! Ma questo sarebbe un altro capitolo ancora da aprire, che non è possibile affrontare ora.
3.
Venendo finalmente al tema specifico del convegno, osserviamo come la materia giuridica si presti altrettanto bene, quanto la materia economica, per comprendere la soppressione delle sovranità popolari. Il m.a.e. rappresenta una tappa significativa di questo percorso di trasferimento della sovranità dagli Stati nazionali all’UE. Già la perdita di sovranità appare evidente nel momento in cui lo Stato rinuncia ad una delle sue prerogative inalienabili quale è la tutela dei propri cittadini all’estero, ma il tema diventa ancora più interessante (o inquietante...) se si vanno ad osservare gli effetti del m.a.e. sul diritto penale sostanziale, e cioè il fenomeno  della produzione di norme penali da parte dell’UE. Questo fenomeno può essere visto come un esempio emblematico di trasferimento di poteri sovrani dagli Stati all’Unione, ma il dato clamoroso è che questi poteri non sono affatto stati “trasferiti”: l’UE se li è arbitrariamente… auto-attribuiti!
Sull’argomento dell’auto-attribuzione di poteri da parte dell’UE merita spendere qualche parola, sia pure nell’impossibilità di approfondire un tema (sconosciutissimo!) che è probabilmente uno dei più delicati della nostra epoca.
Nel diritto internazionale vige il "principio di attribuzione", adottato anche nel Trattato sull’UE (v. art. 5), per il quale la competenza normativa degli enti non statali esiste in quanto sia espressamente attribuita loro dagli Stati aderenti. L'Unione si fa beffe di questo principio e decide autonomamente i propri poteri. Questo accade non da oggi o da ieri, ma da un cinquantennio. Merita ricordare le prime due sentenze della Corte di Giustizia che hanno avviato questo ciclo: la sentenza Van Gend & Loos del 1963 e la sentenza Costa/Enel del 1964.
Con la prima, la Corte ha introdotto il principio dell’effetto diretto del diritto comunitario negli Stati membri, in virtù del quale le norme comunitarie sono direttamente ed immediatamente efficaci e vincolanti non solo per i Paesi membri, ma anche per i singoli cittadini. In realtà, giammai gli atti normativi di un semplice ente sovranazionale potrebbero produrre effetti anche per i cittadini anziché solo per i Paesi membri!
Con la seconda, la Corte  ha sancito il primato del diritto comunitario sulla normativa interna (cioè, in caso di contrasto tra norma interna e norma comunitaria, prevale in automatico quest'ultima).
Come giustifica e motiva la Corte queste straordinarie invasioni nella vita dei cittadini europei? Forse è rinvenibile qualche atto dei Paesi membri che conferisce alla Comunità (ora Unione) questi poteri? Assolutamente no: la Corte così decide arbitrariamente e senza alcun supporto di precedenti atti che giustifichino la decisione, creando da sé, in tal modo, nuovi poteri dell'Unione.  
Venendo ad anni a noi più vicini, e ritornando così al tema del m.a.e., come dicevamo si assiste all'auto-attribuzione di competenza in materia penale attuatasi con tale decisione-quadro, nonché con altri atti dell’Unione, tra cui, in particolare, la sentenza 13.9.2005 della Corte di Giustizia. Questa vicenda è eclatante perché si è sempre pensato ed affermato che la norme penali, essendo per loro natura potenzialmente le più invasive ed incisive sui diritti fondamentali dei cittadini, potevano essere promulgate solo dalla assemblee parlamentari democraticamente elette, ed infatti così è sancito dall'art. 25 c. 2 della nostra Costituzione (riserva di legge in materia penale). Ovviamente l'Unione è ben consapevole che la riserva di legge è espressione della sovranità del popolo (e quindi dello Stato), dell'affermazione della sua autodeterminazione in tema di diritti fondamentali e di limitazione degli stessi: un altro principio ribaltato senza difficoltà, un altro potere che l'UE si auto-attribuisce senza troppi scrupoli…
Naturalmente negli anni successivi questo processo non si è arrestato, ed ha trovato ulteriore espressione – ad esempio - nell’estensione al settore penale della regola della “interpretazione conforme al diritto comunitario” (per la quale la legge penale nazionale deve essere interpretata conformemente sione all’atto comunitario da cui trae origine, così producendo, di fatto, la diretta applicazione di quest’ultimo all’interno del singolo Paese). Ormai in dottrina si parla del “riavvicinamento”, ad opera dell’UE, delle legislazioni nazionali in materia penale, come di un percorso acquisito, non problematico e non più in discussione: cioè si accetta pacificamente che la potestà legislativa penale sia monopolizzata dall’UE, la quale decide il contenuto delle leggi penali dei Paesi membri.
Naturalmente (e ricordando la ratio della riserva di legge in materia penale)  l’assegnazione della competenza penale agli organi comunitari crea maggiore allarme per il fatto che il processo decisionale comunitario non è democratico. Nell’Unione la potestà normativa risiede fondamentalmente in organi (il Consiglio e la Commissione europea, attraverso cui opera una minuscola oligarchia autoreferenziale senza trasparenza e senza possibilità di controllo) privi di rappresentatività democratica; non a caso si è introdotta anche nel linguaggio giornalistico l’espressione “deficit di democrazia”.     
Tutto questo ci permette di comprendere, in sintonia con il tema del convegno, quel che già accennavo, e cioè che l’“esproprio” di sovranità non è vistoso solo in materia economica (pensiamo alla “sovranità monetaria”) ma anche in materia giuridica, ad esempio (ma è un esempio tra i tanti!) sotto forma di perdita di quella espressione della sovranità che si chiama “potestà legislativa penale”.
L’evoluzione delineata è chiara: gli organi europei vivono di vita autonoma prescindendo dagli Stati "creatori" e si auto-attribuiscono poteri e facoltà. In questo scenario, l'erosione della sovranità degli Stati, fino alla sua cancellazione, non è solo un'ipotesi astratta ma una realtà tangibile e vistosa.
C’è qualche reazione a tutto questo? Almeno una, sì. Mi riferisco ad una fondamentale sentenza della Corte costituzionale tedesca del 30 giugno 2009. Questa sentenza, nota come Lissabon Urteil, assume un’importanza eccezionale proprio perché cerca di arrestare l’arroganza della deriva europeista e di ricondurre questi fenomeni alla loro giusta dimensione. Tutti dovrebbero conoscerla dettagliatamente per poter capire qualcosa di più del mondo in cui viviamo, e invece - potere della disinformazione! - non la conosce praticamente nessuno. E’, anche questo, un altro argomento su cui mi è impossibile soffermarmi ora. Spero che il Prof. Moffa, in uno dei prossimi eventi che organizzerà, mi dia la possibilità di parlarne perché siamo veramente al cuore della storia europea dei nostri anni.
4.
Brevissime risposte ad osservazioni formulate da due relatori di questo convegno.
Il Prof. Gargiulo ha manifestato perplessità di fronte agli insistenti riferimenti alla perdite di sovranità degli Stati in favore dell’UE, sottolineando come, invece, proprio la decisione del singolo Stato di aderire all’Unione e di conferirle poteri sia, essa stessa, un atto sovrano e quindi manifestazione (del permanere) della sovranità di quello Stato. E’ questa una teoria ben nota, che però deve essere esposta per intero. Chi la sostiene, infatti, ammette che, per poter affermare che gli Stati abbiano veramente conservato i propri tratti di sovranità, bisogna verificare che l’Unione non sia in grado di elaborare e manifestare una sua autonoma volontà politica decisionale e che – qualora invece questa autonoma volontà esista - gli Stati siano in grado di contrastarla. Nei fatti, un approccio realistico ci dimostra che, al contrario, queste due condizioni non si sono affatto realizzate: ritornando alla terminologia che ho già utilizzato, l’Unione vive ormai di vita autonoma, decide arbitrariamente i propri poteri senza limitarsi e quelli attribuitile, li utilizza per decidere ed imporre le sue politiche, e sinceramente non sembra che gli Stati abbiano mostrato grandi capacità di reazione... Ritengo quindi di poter dissentire dal Prof. Gargiulo.
Queste riflessioni (unitamente ad altre, importantissime ma che è ora impossibile esporre) portano ragionevolmente ad affermare che lo Stato, oggi, è l’UE, mentre i vecchi Stati nazionali non sono altro che le sue articolazioni territoriali. Certo, rinunciare ad essi in favore di un nuovo unico Stato europeo è stata una scelta epocale che avrebbe dovuto essere accuratamente discussa, condivisa, ed altrettanto importante sarebbe stato conoscere ed approvare quel “nuovo” destinato a sostituire il “vecchio”, cioè la struttura dell’UE, i suoi organi, i suoi poteri, il bilanciamento tra essi, i fini che essa si pone, ecc. Sappiamo invece che nulla di tutto ciò è accaduto: tutto è stato calato dall’alto. Ma anche questo è un altro discorso, che ci porterebbe troppo lontano.
L’Avv. Marra mi fa notare che, nella ripartizione delle competenze tra l’UE ed i Pesi membri, io cito solo il criterio costituito dal principio di attribuzione, mentre ve ne sono anche altri, ad esempio il principio di sussidiarietà che (se ho ben inteso il suo intervento) a suo avviso potrebbe spiegare molte di quelle che paiono incongruenze. So bene che il principio di sussidiarietà (cioè quel principio che apre all’UE indefiniti spazi di competenza, ulteriori rispetto a quelli attribuitile) è codificato all’attuale art. 352 TFUE post-Lisbona e prima era codificato all’art. 5 TCE unitamente al principio di attribuzione, però rispondo al Collega Marra:
-        in primo luogo, che io non sostengo l’illiceità giuridica formale dell’auto-attribuzione di poteri o l’inesistenza di base normativa su cui essa possa fondarsi; io la osservo come un fenomeno vistoso (ed estremamente allarmante) che, come ho già scritto, denota l’esistenza di un’autonoma volontà politica decisionale dell’UE, cioè il suo carattere sovrano;
-        in secondo luogo, che mi pare una forzatura giustificare tutto con il principio di sussidiarietà. Non solo all'Unione è stata ormai riconosciuta la competenza a decidere… in quali settori essa è competente (concetto francamente sconcertante – sussidiarietà o no -  che la dottrina tedesca definisce con l'espressione un po' bizzarra di Kompetenz-Kompetenz), ma addirittura le viene riconosciuto di poter decidere la natura, la portata, l’efficacia dei suoi atti e dei suoi poteri... anzi anche di “deciderne” (cioè inventarne) di nuovi... Nei fatti, siamo andati ben oltre la sussidiarietà!